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Pellegrinaggio all’ultimo martire di Tibhirine

Nel 1996 sette monaci trappisti del monastero di Tibhirine, in Algeria,  furono sequestrati nella notte tra il 26 e il 27 marzo, e uccisi il 21 maggio seguente. Le vittime sono state poi beatificate con altri martiri d’Algeria l’8 dicembre 2018

“Semplice, solenne, quasi gioioso”. Mi parla del rito di sepoltura di père Jean-Pierre, l’ultimo monaco sopravvissuto di Tibhirine. Anne me ne parla con quella freschezza di emozione, come fosse accaduto ieri… e sono passati quasi due anni. In tutti i presenti, – confessa, poi – vi era la consapevolezza, triste e serena, di seppellire l’ultimo pezzo della storia di Tibhirine. Due vescovi, un paio di imam, alcuni amici musulmani, laici e religiose e i monaci del monastero: era un piccolo gruppo. “Quell’uomo semplice, umile e dolce ci regalava un momento di grazia,” continua sempre Anne, ” un senso commosso di comunione.”  Sembrava, seguendo il suo racconto, avesse convocato, in quell’occasione, il mondo in originali istanti di fraternità.

Per me, il ricordo quando capitavo, anche dopo anni, al monastero… Ti si accostava delicatamente in chiesa, ti chiamava per nome, ti raccontava le ultime novità. Componeva, poi, all’altare le rose del giardino, e, per una piccola mania, ne raccoglieva sempre sette alla volta. In memoria della vita dei sette monaci martiri. Oppure, venendo da lui con dei gruppi di giovani, lo sentivi dare una testimonianza sempre avvincente, profonda e serena. Ma confessava il suo stesso martirio: era una domanda che gli scavava l’anima. “Ma perché tutti loro sono partiti e io no?!” I suoi sette fratelli erano martiri, beati in cielo… e lui rimasto ancora su questa terra, con il tormento del loro ricordo.

Ho ancora presente quella volta quando gli chiesi di confessarmi. Mi fece sedere su una sedia, lui mi si inginocchiò accanto, umile come un agnello, quasi scomparendo… Alzando poi decisa, ben alta, la mano destra, ti sembrava che tutta la misericordia di Dio ti piovesse addosso. Oppure ricordo quando fattasi sera, nel mese di ramadan, al ftour, cioè alla rottura del digiuno, si veniva invitati alle case dei vicini, e, con i monaci, trotterellando contenti, lui in testa, ci si incamminava per una festiva cena fraterna, ogni sera a una casa diversa. Durante l’anno avevano ricevuto dei favori dal monastero, così i vicini ricambiavano nel tempo sacro del ramadan. Un monastero in terra d’Islam è per davvero un ponte tra culture e religioni differenti. Non un mondo chiuso. Non uno spazio sacro, esclusivo per pochi. Negli ultimi tempi avevo incontrato Jean Pierre brevemente. Gli chiedevo quale mano il papa gli avesse baciato nel loro incontro a Rabat. Mi guardava, sorridendo… Ormai, a 97 anni, non parlava più. “Se vieni al mondo sapendo di essere amato e lo lasci sapendo la stessa cosa, allora tutto ciò che nel frattempo è accaduto sarà valso la pena” cantava Michael Jackson.

Così, per salutarlo ancora una volta, mi sono recato in un angolo remoto del monastero. Vi accoglie un piccolo, povero cimitero, delizioso come un giardino, circondato intorno a semicerchio dal verde riposante di cipressi. Vegliano su otto tombe di monaci trappisti e di religiose: poveri cumuli di terra, bordati da una corona di piccoli ciottoli, scelti con cura, come pietre preziose. Alcuni disegnano una piccola croce al centro.  Mani delicate, – lo si nota subito, – hanno composto tutto questo con amore. Sì, un poema all’essenzialità della fine dei nostri giorni… Il vostro sguardo, poi, cade su una sedia antica di legno, accanto all’ottava tomba, l’ultima, quella di Jean-Pierre. Essa vi invita, così, a restare anche mezz’ora – dei momenti di eternità in sua compagnia – in un dialogo silenzioso con colui che è tornato terra alla terra. La sua anima, però, è diventata per sempre preghiera. Era il suo sogno. I monaci in terra d’Islam sono chiamati “priants parmi les priants” (oranti tra gli oranti). In fondo, qui all’ombra dei cipressi, si gusta la pace dei santi. E, nella brezza che li accarezza, la presenza del mistero di Dio.

Accanto si distende la tomba di suor Adonai, colombiana, giovane di più o meno 40 anni. Venuta in Marocco si interrogava lungamente, prima della professione, se restare o tornare alla sua terra amata. Infine, dopo molto tempo di tormento, decise di restare in terra d’Islam. Poco dopo, un incidente la prese sul serio. Da allora, suor Adonai, latinoamericana, sposa per sempre questa terra africana.
Tornano alla mente, così, leggere come il vento, le parole del cardinale Martini: “Mi sono riappacificato col pensiero di dover morire, quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio… La morte ci obbliga a fidarci totalmente di Lui”. E sarà il nostro andare incontro, a braccia aperte, all’eternità. Che proprio qui si ritrova.

Fonte: Renato Zilio – missionario scalabriniano a Casablanca (Marocco). Autore di «Dio attende alla frontiera » EMI 36.ma ediz.

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