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Commento al Vangelo Lc 6,17.20-26

“In quel tempo, Gesù, alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi». È così che inizia il vangelo di questa domenica, e il dettaglio degli occhi di Gesù che si soffermano sui volti dei discepoli la dice lunga sul contenuto delle stesse beatitudini.

Sembra quasi che il Signore dica che le beatitudini sono per i discepoli e non per tutti. E vorrei ben dirlo! Poveri, affamati, afflitti, persone con tutte le problematiche legate alla vita, con le loro preoccupazioni, le loro disperazioni, le loro croci, i loro affanni, le loro lacrime. “Beati” dice Gesù. Che sappia il segreto della felicità? Che finalmente Dio si sbottoni e spieghi l’essenziale agli uomini evitando fatiche boia? E subito una delusione: “beati voi poveri… voi che piangete…”.

Ma come? Cosa significa? Semplice, geniale: la beatitudine, la felicità non consiste certo nella povertà, nella sofferenza (non facciamo dire stupidaggini a Gesù: Dio non ama la sofferenza!) ma in Dio, perché chi soffre, chi ha fame si rivolge a lui. È come se Gesù dicesse: «Se, malgrado la povertà, la sofferenza, la persecuzione, sei felice, allora la tua felicità è posta altrove: beato».

Sì, amici, Gesù svela che l’origine della felicità è nel sentirsi amati da Dio, nel leggere la propria storia nella grande storia d’amore di Dio. La beatitudine è altrove, è dentro, è in Dio. Beato se capisci questo: allora neppure la sofferenza, la povertà, la fame possono distaccarti da questo grande oceano di felicità che è il cuore di Dio. Solo chi è discepolo può capire tutto questo!

Chi non lo è, può affermare che siamo pazzi a inneggiare alla sofferenza! Geremia conferma questa riflessione, come il ritornello del salmo che abbiamo proclamato: «Beato l’uomo che confida nel Signore». Ma il Vangelo non si conclude solo sui beati, ma contiene anche un secondo elenco che inizia così: «Ma guai a voi».

E Gesù pare che smonti quelli che invece sono ricchi, sazi, ridenti, strafottenti. Tra i discepoli c’erano anche loro. Gesù non maledice, Dio è incapace di augurare il male, lui che è bene. Gesù vede la conseguenza di una ricchezza, di un’arroganza che chiude il cuore. Un cuore sazio si dimentica, un cuore affannato non si accorge della verità, un cuore in ansia per la ricchezza è schiavo, non libero, del proprio potere. Quant’è drammaticamente vero!

Quante persone “realizzate” conosco e che pure sono umanamente miseri, spiritualmente aridi. Realizzati, sì, temuti, invidiati eppure soli con la propria supponenza, estranei al mistero della vita … Ci è lecito pensare che queste due categorie di persone in realtà sono due facce della stessa medaglia, sono due modalità che ogni discepolo di Cristo si porta dentro. Siamo contemporaneamente medicanti di senso, e superbi ricchi che pensano di bastare a sé stessi.

Siamo affamati di un valido motivo per cui vivere e allo stesso tempo siamo sazi del mondo confondendo la felicità con la soddisfazione. Siamo persone che piangono la propria autenticità e siamo dei cinici che ridono con strafottenza pensando che l’indifferenza ci terrà al sicuro. Insomma, siamo l’uno e l’altro, ma possiamo decidere noi da che parte stare: se stare dalla parte dei “beati”, oppure stare dalla parte dei “guai”.

Non è la vita a decidere al posto nostro. Il cristianesimo mette radice nella nostra debolezza, nelle nostre mancanze, nei nostri fallimenti ma non perché si pone come soluzione o consolazione, ma perché l’Amore di Dio sa porre fiducia lì dove nessuno la riporrebbe mai, compresi noi stessi.

La beatitudine cristiana consiste nel lasciarsi amare proprio lì dove ci sentiamo più perdenti, più fragili, più falliti. È far entrare Dio nella nostra miseria prima ancora di risolverla. È permettere a Dio di manifestarsi nella nostra debolezza più ancora che nella nostra autosufficienza.

Beato non è chi sa tirarsi fuori dai guai da solo, ma chi si lascia tirare fuori dal Suo Amore.

Buona domenica!

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