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Una tomba vuota nella città deserta

In questa Pasqua di guerra dove la città vuota è un segno di disperazione, la Tomba vuota è il segno che in quella apparente solitudine e desolazione cammina già una Presenza viva.

La Città è vuota. Gerusalemme è vuota.

È vuota la città santa per gli ebrei, i cristiani, i musulmani. Vuoti gli alberghi che nella Settimana Santa sono affollati dai pellegrini che arrivano da tutto il mondo. Vuoti o chiusi i negozi che affollano il suk della città cinta dalle mura di Solimano. Chiuso anche l’ostello della Custodia di Terra Santa, i frati che da 800 anni obbediscono al desiderio di san Francesco di essere presente, sempre, accanto ai fedeli di tutte le religioni per condividere, in tutto, la loro vita, nel luogo dove Dio ha condiviso interamente la sorte dell’uomo fino alla morte. Fino alla croce.

La processione delle Palme ha visto pochi cristiani di Gerusalemme seguire il cardinale Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei latini. Avrebbero dovuto essere con lui alcune migliaia di cattolici palestinesi, venuti da Betlemme e dalla Cisgiordania; dalle autorità militari israeliani era stato assicurato il permesso di entrare a Gerusalemme, ma all’ultimo momento sono stati chiusi i valichi.

La guerra di Gaza ha tanti volti e uno di questi è la chiusura, la chiusura dei cuori e dei muri.

C’erano i cristiani di Gerusalemme e con loro i lavoratori emigrati, cattolici filippini soprattutto. E anche ortodossi dell’Est Europa, che la Pasqua la celebreranno il 5 maggio, secondo il calendario giuliano, ma ora hanno condiviso questo momento con i cattolici. La fraternità delle Chiese cristiane si rende ancora più evidente in questa settimana. Si scordano i rancori del passato.

In processione si sono visti i cartelli che ricordavano la Chiesa cattolica di Gaza, dedicata alla Sacra Famiglia, e la Chiesa ortodossa di San Porfirio. Il Patriarca ha pregato per loro.

Da Gaza sono giunti i messaggi dei seicento cristiani, cattolici e ortodossi, che vivono insieme dopo la distruzione della chiesa ortodossa (furono 18 i morti nel bombardamento). Oggi condividono il poco, quasi nulla, che hanno.

Quale futuro?

Suor Nabila dal suo convento delle suore del Rosario, costruito accanto alla chiesa, manda un messaggio che unisce la tentazione di cedere alla disperazione al grido perché si affacci una speranza, finora negata. E un appello: «Voi fuori non potete capire cosa stiamo vivendo, cosa sta realmente avvenendo qui. Gaza è rasa al suolo, la Striscia è divisa in due, ma si combatte ancora ovunque. Il cibo è scarso», dice, «i prezzi altissimi, si cucina due volte alla settimana. Gli aiuti non arrivano al Nord e bisogna andarli a prendere, rischiando ogni volta di non tornare. Ci sono persone armate di armi e di coltelli che uccidono per un sacco di farina, i più deboli non prendono nulla. Ci sono padri che escono dal compound della chiesa per cercare cibo e salutano mogli e figli sapendo che potrebbero non rivederli mai più. Quale sarà il futuro di questa terra? Ci vorranno anni per rivedere la luce. Ci consolano i sorrisi dei bimbi per i quali chiediamo un futuro di pace. Ci aggrappiamo alla fede in Gesù».

La fame è devastante, dice il cardinal Pizzaballa: «È oggettivamente una situazione intollerabile. Abbiamo sempre avuto tantissimi problemi, problemi di ogni tipo. Anche la situazione economica, finanziaria, è sempre stata molto fragile, però la fame non c’è mai stata. È la prima volta che dobbiamo fare i conti con la fame vera e propria: questo è intollerabile. Penso che tutte le comunità religiose, politiche e sociali debbano fare tutto il possibile per rompere questa situazione».

Cattolici e ortodossi condividono tutto. L’ecumenismo qui è una realtà che nasce nel sangue. «È il segno evidente dell’unità sempre maggiore tra le Chiese cristiane», dice il Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton. «In nessun altro posto al mondo l’ecumenismo è così vissuto e messo in pratica come qui perché è maturata una sofferenza condivisa da tutti, una chiesa resiliente e questo fa parte del mistero dell’esperienza cristiana».

Tutti là sono nati

Un gruppo di pellegrini giunto da Milano viene accolto dal Custode. «È la peggior crisi dal 1948», dice. «I cristiani vivono l’isolamento e la mancanza di risorse, ma non possiamo cedere all’odio, dobbiamo chiedere il dono di un cuore purificato. Ogni giorno risuonano parole disumanizzanti».

L’invito ai pellegrini ad affrontare il viaggio in Terra Santa è risuonato nelle parole del cardinale Pizzaballa durante la Domenica delle Palme: «Quello che noi abbiamo visto in questa processione da Betfage fino a Gerusalemme è stato il camminare della Chiesa: vuol dire che tutti i cristiani del mondo sentono che sono figli di questa chiesa. C’è un Salmo che dice: “Tutti là sono nati” e fa riferimento a Gerusalemme. E in questo momento noi sappiamo che la Chiesa di Gerusalemme ha bisogno che i cristiani di tutto il mondo vengano qui come pellegrini per esprimere una concreta comunione con quella Chiesa che è la loro madre e che è in un momento di sofferenza. Non abbiate paura, lo dico ai fratelli a Gaza, coraggiosi fratelli nostri, non vi lasceremo mai, non abbiate paura. Lo dico ai pellegrini, che sono parte dell’identità di Gerusalemme, non abbiate paura».

Il cardinale Pizzaballa vede nell’odio crescente il pericolo peggiore, il rischio di una divisione che non potrà più ricomporsi. «Non è la prima volta che c’è la guerra», ha sottolineato all’inizio della Settimana Santa. «Non è tanto la guerra a rendere la situazione sempre più difficile, perché abbiamo avuto tante guerre, ma il contesto di odio, di risentimento, di mancanza di fiducia, di frustrazione. Tutti questi sentimenti negativi fanno da contorno alla guerra, rendendo la situazione molto più pesante e più difficile anche per la mancanza di prospettive. Le guerre precedenti si sapeva che finivano e poi, più o meno, si ricominciava. Adesso non si sa. Chiaro che si dovrà ricominciare, ma non si sa come: tutto questo rende il clima molto più pesante».

Qualunque lingua parlino

Un’atmosfera pesante che si respira in tutta la Terra Santa, non solo a Gaza o a Gerusalemme. I cristiani vivono per lo più di turismo, ma oggi Betlemme è una città fantasma, chiusa dai muri. A sostenere gli abitanti, non solo i cristiani, ci pensano le tante opere degli ordini religiosi, le scuole, gli istituti per i bambini portatori di handicap, come Effetà, che si occupa di minori sordomuti. Vengono qui da tutta la Palestina, ma ora le aule sono quasi vuote.

A Nazareth continua il lavoro dell’Ospedale della Santa Famiglia, aperto a tutti. «Ho visto curare qui arabi cristiani, musulmani, drusi, ebrei, ebrei nati qui ed ebrei emigrati dalla Russia e dall’Est Europa», ci racconta suor Maria Teresa, bergamasca, che vive qui da mezzo secolo. «Qui tutti sono accolti. Nel 2006 gli ebrei che fuggivano dai kibbutz del Nord hanno trovato cure e ospitalità». Il sorriso di suor Apolonia, indiana, illumina la nursery. Da dieci anni fa nascere bambini a Nazareth: «Ne ho visti venire al mondo migliaia. Tutti belli. Tutte belle le loro mamme: ebree, arabe, israeliane, palestinesi, cristiane, musulmane e anche emigrate russe e filippine. Tutte sorridono allo stesso modo. E la guerra non esiste in quello sguardo rivolto al loro bimbo appena nato».

Il direttore sanitario, Isaq Elisa, è arabo cristiano: «Nazareth è una città prevalentemente araba e a maggioranza musulmana: ma qui vengono tutti, questo ospedale fu costruito mezzo secolo prima della nascita di Israele: ora è un esempio di convivenza. Da qualunque parte vengano, qualunque religione professino, qualunque lingua parlino».

«Ora c’è una guerra, ma qui ci sono medici di tutte le religioni e di tutte le etnie», dice il primario, Ibrahim Harbashi. «Viviamo la pace nel nostro servizio a tutti. Andiamo anche negli ospedali del Nord ad aiutare. Sperando che la guerra si fermi e non dilaghi dal Nord, dal confine con il Libano. Sarebbe una nuova e forse ancora peggiore tragedia».

Un segno per tutti

Molti pensieri riempiono i cuori: il ricordo del massacro del 7 ottobre, il terrorismo di Hamas, lo sterminio dei 1.200 ebrei, l’agonia degli ostaggi, l’agonia degli abitanti della Striscia di Gaza sotto i bombardamenti, le notizie che annunciano la rottura delle difficili trattative e la volontà di Israele di proseguire nell’offensiva mentre Hamas si asserraglia nei cunicoli.

Il rumore della guerra oltrepassa a Nord i confini con il Libano, anche lì è Terra Santa, anche lì è Pasqua di sangue. Gesù compì miracoli a Tiro e Sidòne e nei villaggi dove regna Hezbollah ci sono molti cristiani che convivono con i musulmani: come ogni anno festeggiano la Pasqua insieme. I cristiani partecipano alle cene di Iftar, alla sera dei giorni di Ramadan, i musulmani fanno loro visita nella settimana di Pasqua.

«Un’amicizia che è segno che la guerra di religione non ha senso», ci dice Geries, il sindaco cristiano di un villaggio colpito dalle bombe, vicino al confine. «Anche questa è terra di Gesù e mi auguro che questa pace e questa amicizia siano un segno per tutti».

Vuota è la tomba

Il pellegrino che ha il coraggio e la possibilità di venire a Gerusalemme per questa Pasqua accogliendo l’invito di Pizzaballa (l’aeroporto funziona, i voli sono più cari ma gli alberghi costano molto meno), sosta per ore in preghiera nella basilica del Sepolcro, l’Anastasi (la Resurrezione) per gli ortodossi. Normalmente ci vogliono tempi infiniti di attesa per potersi inginocchiare per pochi minuti o pochi secondi nell’edicola dove c’è la Pietra della Resurrezione. Ora nessuna fila. Il coraggio viene premiato dal privilegio di poter pregare su quella Pietra in silenzio per tutto il tempo che si vuole. Accade in tempo di guerra.

E la notte la Divina Liturgia ortodossa risuona nell’Anastasi davanti alla quale si raccolgono pochi fedeli. Si può restare dal tramonto all’alba accanto ai fratelli ortodossi, fino a quando, alle cinque del mattino, iniziano le celebrazioni dei francescani. Un’esperienza di unità che prelude l’alba della Resurrezione perché, se è vuota la città, e pochi pregano nelle chiese, è vuota anche la tomba. Segno che la disperazione e la morte non sono state le ultime parole.

La vera speranza

Il custode padre Patton ci ricorda che «la Chiesa in Terra Santa sta vivendo un lungo Venerdì Santo, quasi schiacciata dal peso della croce, ma non sarà un Venerdì Santo eterno. Arriverà il sole di Pasqua e sorgerà anche per la Chiesa di Gerusalemme. Occorre dare un senso alla sofferenza di quei milioni di cristiani nel mondo al quale nessuno dà voce. Non si bypassa il Venerdì Santo né il Sabato Santo. Vanno vissuti fino in fondo per fare l’esperienza della Pasqua che non evita la morte, ma attraversa l’esperienza della morte con Gesù. Se non crediamo nella potenza della passione, morte e resurrezione di Cristo non ha senso rimanere qui, o in posti dove essere cristiani è difficile. Vorrebbe dire che il cristianesimo non è una proposta che cambia il mondo».

In questa Pasqua di guerra dove la città vuota è un segno di disperazione, la Tomba vuota è il segno che in quella apparente solitudine e desolazione cammina già una Presenza viva, un uomo uscito vivo dalla tomba, compagnia ad ogni uomo. In qualunque condizione, in qualunque tempo. Pace nella guerra. Impossibile non avvertirlo, in qualche modo, in quel silenzio dei vicoli che attraversano Gerusalemme, un silenzio che viene rotto a tratti dalle grida dei bambini che corrono, giocano e scherzano con i pochi stranieri presenti. La mente va a suor Nabila a Gaza che in quei bimbi intravede tra le lacrime la vera speranza, il chiarore dell’alba di questa Pasqua, dove ora il Venerdì di Passione sembra essere più lungo, più buio.

di Giancarlo Giojelli – Tempi.it

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