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Dove i grandi si fanno piccoli, i piccoli crescono. Anche a Nisida.

“Praesaepe”, dal latino greppia, mangiatoia, ma anche recinto chiuso dove veniva custodito il bestiame. Composto da prae (innanzi) e saepes (recinto), e ancora “praesepire” cioè recingere.

Ci siamo armati di presepi per entrare nel recinto dove il vero presepio aspettava noi per presepiarsi, per presepiarci. E ci siamo fatti presepe in una landa lontana anni luce dai presepi che campeggiano nei nostri comodi e riscaldati soggiorni.

Nisida, carcere minorile, antivigilia. Tra due varchi, nel mezzo di un’attesa che si aprisse il secondo portellone blindato, mentre il primo si era già chiuso pesantemente alle nostre spalle dopo i controlli, quelli in gabbia sembravamo noi. Telecamere puntate da nord a sud e viceversa, noi stavamo nel mezzo a non saper dove guardare perché da guardare c’era solo un tenebroso colore, grigio topo. In un tempo interminabile dove abbiamo lasciato sfumare la prima di tante opportunità che l’attendere richiede, c’era chi sgranava il rosario, chi faceva conversazione superficiale e chi leggeva comunicati sindacali affissi in bacheche arrugginite della penitenziaria, tanto per riempire il vuoto ingombrante che si era fatto macigno per noi che sembravamo “color che son sospesi”. In quella terra di mezzo dove non stai né nel mondo, né in galera.

“Da qui si entra per amare Dio, da quei si esce per amare il prossimo”, la scritta a mano sulla porta di ingresso della piccola Chiesa dedicata a San Paolo. Non si è ben capito se i più spavaldi eravamo noi che con piccoli presepi a calamita da frigorifero, tavolette di cioccolata e panettoni per tutti, pensavamo di farla franca con un’ora e mezza di presenza o se quelli più spavaldi erano loro, gli adolescenti ristretti nel carcere minorile di Nisida, che sono entrati in chiesa col cappellino da baseball alla rovescia, mani in tasca, molleggiando come ad una sfilata della Lewis o per darsi un tono, mentre solcavano il corridoio per stravaccarsi forzatamente scomposti, tra i banchi della piccola cappella del carcere minorile. Sfidando il mondo in quell’ora d’aria per prendersi tutte le rivincite che la vita, impietosa, ha negato loro. Tutti o quasi con il “gimme five” a portata di muso. Duro, spigoloso. Da uomini fatti senza il tempo di crescere per diventarlo.

Tutti salutavano tutti, sotto l’occhio vigile dei sorveglianti, in borghese per non creare troppa separazione, con la radiolina in mano perché si vedesse che erano i controllori e non i controllati. Che annunciava un primo scaglione che scendeva e a distanza quello successivo. I secondi tutti da salutare eravamo noi, gli ospiti che vengono da fuori, autorizzati a entrare con tastiera, chitarra, leggio e un prete. Senza telefono, senza pregiudizio, senza nulla a pretendere. Noi, quelli di una parrocchia itinerante che entra in una dimensione ai più sconosciuta e che dopo l’esperienza di Poggioreale si sono lasciati stupire e smarrire, meravigliare e sgomentare, ancora una volta, come se fosse la prima, l’unica, l’ultima. Quelli che entravano in chiesa, gli ospiti del riformatorio, scendendo dalle camerate all’ora prestabilita, sembrava entrassero in guerra più che in un luogo di culto; ci siamo chiesti se li avessero obbligati a presenziare o se quella della messa era una scusa per fare una cosa diversa dalle ore scandite e imposte dalle attività istituzionali. Mascelle serrate, barbetta adolescente incolta, sguardo da duro, occhio profondo che guarda un orizzonte spietato e che non c’è, e mano tesa, puntata come un coltello, a salutare tutti che più che un affronto sembrava un affondo.

Il canto di introduzione arpeggiava nell’aria “Il disegno perfetto di Dio” alternato a “Io sono qui”, per provare le tonalità e gli accordi. Uno dei ragazzi, in tuta, senza giubbino abbottonato, senza mani nelle tasche dei pantaloni, come gli altri, seduto al primo banco, tentava di riprendersi il cuore che si era sporto un po’ troppo verso le animatrici con un sorriso lungo gli angoli degli occhi che tradiva ed eludeva le barriere del controllo/giudizio degli altri, ciononostante, di tanto in tanto, si guardava indietro per scongiurare che qualcuno si accorgesse che quelle note, lui, le assorbiva e che in quella cassa armonica di chitarra, a vibrare, dall’interno, era anche lui. Nessuno si accorse del suo rapimento, quiete, gioiosa armonia, meraviglia. Gli altri erano impegnati a fare gli scemi tra loro, a schernirci, a schernirsi, fare spallucce, sgomitarsi fino alla forzata piaggeria verso noi, il direttore, i sacerdoti, i sorveglianti, tutti disseminati tra i banchi in ordine sparso. 

“Tu come ci sei finito qua?” con una domanda, il sacerdote ischitano, trafigge, all’improvviso, il più guappo, col cappuccio ed il collo del giubbino alzato, quello che con le mani in tasca è entrato e con le mani in tasca si è seduto. Alza solo un po’ lo sguardo dallo scaldacollo tenuto su fino agli occhi e lo omaggia della risposta “ch’è pier”. Qualcuno ridacchia, qualcuno si gela, qualcuno curioso vuole proprio vedere come va a finire.

Nessun cedimento, don Fabio, il cappellano del carcere, quasi in apnea, don Carlo, il sacerdote ospite, è andato avanti, con la stessa frequenza, solo di mezzo tono più basso, andante senza brio, come le note del flauto dolce sul pentagramma, con una punta di visibile comprensione, modificando di poco l’accento, uniformando l’inflessione, facendosi riconoscere, passando oltre a chi gli rispondeva quando la domanda cambiava. Altri rispondevano picche, qualcuno borbottava, qualcun altro sfidava questo estraneo vestito da prete, che chissà che si credeva.

Don Fabio, il loro sacerdote e don Carlo, il nostro di sacerdote, tutti e due sullo stesso altare, si raccontavano o forse confidavano, chissà. “Celebriamo questa messa, nella quarta domenica……dal Vangelo secondo Luca, ecco concepirai un Figlio” e nella omelia si presenta “sono don Carlo e vengo dall’isola che sta proprio di fronte a questo posto meraviglioso dal quale si vede un panorama stupendo, immagino siate contentissimi di stare qui, no?” domanda retorica, non aspetta la risposta e incalza “e pensavo, se dovesse venire oggi l’angelo annunciatore, dove andrebbe?”

Silenzio. O quasi, qualcuno nelle retrovie deve essersi chiesto se allontanandosi da questa pantomima gli sarebbe valsa lo stesso la presenza all’attività o anche solo l’assenza giustificata dalle camerate.

“Se all’epoca dei fatti che il Vangelo di oggi ci racconta, in una logica un po’ strana, invece di andare in un tempio fatto di brava gente scelse di andare in un villaggio di poche anime, per lo più non civilizzati, trogloditi se vogliamo, come all’epoca chiamavano i nazareni, poiché vivevano nelle grotte, pensavo, se dovesse scendere oggi, il Signore dove lo manderebbe questo Angelo annunciatore? Secondo me proprio a Nisida, in una delle vostre…come le chiamate? Stanze? Ma lo sappiamo tutti che sono celle, no?”

“Quale fu la prima cosa che l’Angelo disse a Maria?” “non temere”

-Ma che domanda a fare se poi si risponde da solo? – Risatine soffocate provenienti dagli ultimi posti, dove pensano di non essere sentiti. 

“c’è una cosa che accompagna tutti noi nella vita ed è la paura. C’è poco da fare, dobbiamo farci i conti con questa paura e tante volte noi la nascondiamo travestendola di rabbia. Cosa direbbe l’Angelo se venisse oggi, proprio qui? Albè, Giova’, Mattè, Gennà, Ciro, Samuè, non avere paura, non crederci al fatto che ti hanno detto che sei un fallito, dismetti questa convinzione, è una menzogna. DISETICHETTATI.”

“Questa parola arriva a ciascuno di noi, a tutti noi, pure a questi che mi accompagnano e che non sanno nemmeno loro dove stanno di casa.” (sì, ce l’aveva proprio con noi!)

Risate, caciara, commenti. Qualcuno ha mormorato “stamm bell!”

“L’angelo proprio stasera viene e dice ….” Lo interrompono, nasce dal nulla una domanda apparentemente irriverente e lui accorcia la distanza, dopo essere sceso dal pulpito si infila tra i banchi e risponde. Al ragazzino irriverente solletica un po’ l’ego, del resto, se osa interrompere è un leader, soprattutto, poi, se ottiene una risposta. Dal prete. Che viene da fuori e nemmeno lo conosce.

Per chi conosce il sacerdote ischitano, una delle cose che lo fanno proprio uscire dalla Grazia di Dio è interromperlo durante l’omelia, spesso lo sentiamo tuonare “l’omelia non si commenta durante l’omelia”. Qualche volta si corre il rischio che vada in manifestazione, basta una notifica di cellulare ed è capace di girare gli occhi all’indietro. A Nisida la logica si è capovolta, le regole sono saltate e tutto è diventato nuovo pure per noi che pensavamo di saperne un poco in più di loro, che a fine serata sarebbero rimasti lì. Come direbbe un vecchio adagio di pubblicità “a Natale puoi”

“Ma Natale, per chi arriva secondo voi, chi lo può festeggiare?” ne guardava tanti, ne toccava due a due, quante sono le sue mani, su due teste, a caso, ne avesse avute di più, se solo avesse avuto più mani avrebbe toccato più teste, che loro, distrattamente, si facevano toccare, mai che si dicesse che li stesse benedicendo al volo al volo, che nessuno dei più guappi se ne accorgesse. E lui in un giro di platea, durante l’omelia che pareva trasformarsi in dibattito di botta, risposta, silenzio, ripresa, vai a capo, terminava casualmente una fila e ne ricominciava un’altra, e lui a toccare perché loro sentissero che non erano i lebbrosi, i ladroni, gli infedeli, ma quelli senza i quali non ci sarebbe stato nessun Natale a Nisida. Non ne voleva perdere nemmeno uno, tutti gli occhi voleva incontrare, se loro volevano corrispondere lo sguardo. E tutti li ha incontrati, pure quelli di chi non c’era e che a fine messa si è affacciato per curiosità.

“Allora? Per chi arriva il Natale?” Varie le risposte: “per tutti” “per chi crede”, “Pe chi ten è sord po festeggià”. Risate, amare, dure, aggressive, violente come può esserlo la vita a questa età quando ti cambia le carte in mano e sostituisce la play station col panetto di hascisc, la paghetta col soldo facile, la buonanotte di mamma con gli inseguimenti a sirene spiegate, la stanzetta coi poster, fosse pure quello di Gomorra, alle sbarre, quelle vere.

“No, quella dei soldi è una scusa per fare festa, chi può festeggiare il Natale?” “chi deve essere perdonato, perdonato da cosa? Dai peccati, quindi chi può festeggiare il natale? I peccatori.”

Occhi bassi. Silenzio. “qua dentro siamo tutti peccatori” qualcuno ha sussurrato.

“Ma perché tu pensi che io non sono peccatore?” – dice il prete- Quel tu era per ognuno di noi, tanto gli occhi erano tutti a terra e nessuno saprà mai a chi guardava quando diceva “tu pensi”.

“È Dio che prende l’iniziativa nella vita di ognuno di noi, come ha fatto con Maria, non perché siamo buoni o meritevoli, ma perché ci ama, senza se e senza ma.” “A Maria mica le ha detto sto qua per i tuoi meriti, perché sei brava, religiosa, per bene, no! Sto qua perché hai ricevuto la grazia”

“come facciamo a sapere che Dio ci ama, ci segue” Il leader di prima ci riprova, i compagni lo invitano alla riflessione con un corale “natavot? E jà”, ma la tentazione di scardinare l’attenzione che tutti dedicavano a questo strano sacerdote venuto da fuori era troppo forte, come resisterle?

“la mattina per sapere come è il tempo che devi fare?” imperturbabile il prete, “devi svegliarti” la provocazione per attirare i consensi non tarda – “e poi?” – “come fai a sapere se il tempo è buono o no? Devi aprire cosa??”

“le finestre”

 “Ecco appunto, con il cuore funziona uguale, se non lo apri, come fai a sapere se Dio ti ama?”. Il provocatore ha la risposta pronta “se il cuore è spezzato non lo puoi aprire più perché non funziona”. Ma il “maledetto prete”, quello di “tu non sai quanto vale un’anima”, non si lascia silenziare anzi, guadagna terreno: “lo puoi aprire sempre, cosa ha detto l’Angelo a Maria? “Nulla è impossibile a Dio”. “Guai se ti fai convincere dal mondo che non puoi ricominciare”.

“noi andremo all’inferno” Sembra volere ufficializzare l’alibi, uno di loro, ma non ottiene l’autorizzazione dal prete che replica “E tu pensi davvero che Dio ha mai mandato qualcuno all’inferno?” – “Lucifero?” qualcuno mostrava con enfasi ed orgoglio di aver letto qualcosa da qualche parte, ma il sacerdote disillude e smorza: “no, ci è andato per sua scelta, lui ha scelto di andarci”.

L’aspirante disturbatore inizia uno show di borbottii, lamenti molesti, espressioni lapidarie tipiche degli adolescenti che si chiudono a riccio quando non si sentono compresi dagli adulti, non prima di avere sentenziato che il mondo non va affatto come dice il prete e loro, in fatto di vita di strada ne sapevano qualcosa in più del prete. Forse.

“Ascoltami bene, nun fa o uapp”, “ma che ne sai tu ca io so guapp” “Albè nun fa o uapp è carton, stai chin è paur” – “tu che ne sai, io nun teng paur è nient, tu che vuo’ capiì” “Hai bisogno di stare al centro, non sai ascoltare, non sai ascoltarti”-“ma quando mai”, botta, risposta, mugugni, rimbrotti, ping-pong; il sacerdote continua a catechizzare centrato, non lasciandosi distrarre da alcunché, malgrado i tentativi di interruzione. Mantiene il timone dritto, malgrado qualche onda un po’ più alta. Segue la scia, asseconda l’onda, saltellando di tanto in tanto per qualche cavallone. Uscito dal porto, ottiene il silenzio giunto in mare aperto.

“Io ho l’impressione che noi non abbiamo coscienza di quanto vale un’anima, voi avete coscienza di averne una?” “Perché, secondo voi, oggi, a poche ore dal Natale, noi ricordiamo che Dio, infinitamente grande, si è fatto infinitamente piccolo per stare in mezzo a noi a partire da un villaggio tra i più poveri, in una mangiatoia destinata agli animali, in una stalla fatta di sola paglia e fieno? Perché ci ama, infinitamente, incondizionatamente.”. Il silenzio mantiene alta l’attesa.

“Come si fa a incontrarlo?” dal pubblico non pagante perché stava già pagando la redenzione vivendo l’inferno in terra.

“Con la preghiera perché la preghiera è entrare in un rapporto di amicizia con il Signore e quando ci entri, nessuno te lo può togliere, ‘Tu non dimentichi chi ti dimentica’ diceva Sant’Agostino”.

“Dio ti ama lo stesso, anche quando scarichi diversamente la tua rabbia, anche quando la convogli in imprese distruttive e lontane dal Suo disegno. Tu sei un potenziale enorme, non quello che gli altri ti convincono che tu sia. E per Dio vali la vita. La Sua”

Ci riprova il cucciolo semi ferito travestito da delinquente incallito: “io penso che se cadi 10 volte e ti rialzi 20 è la tua testa che ti dice di rialzarti, non un Dio, non altre persone, questo penso” ecco il guanto di sfida. Il leader se la gioca, ha una credibilità da difendere e non può uscirne con il “rispetto” scalfito.

Ma il prete si avvicina, lo punta da lontano, dall’altare per l’esattezza, si fa strada tra i compagni, lo guarda negli occhi, mantiene lo sguardo, l’altro un po’ tentenna e quando l’obiettivo è proprio al centro del mirino, mette il selettore a raffica di misericordia.  E spara.

“Anche io la pensavo come te” gli appoggia una mano sulla spalla e si racconta come si fa con un fraterno amico, “quando si è giovani si è pervasi dal delirio di onnipotenza, poi cresci e arrivano le batoste, i fallimenti, sotto il profilo affettivo, della salute, del lavoro, vai a tappeto su vari aspetti e lì, una volta a terra, scopri che tu non sei il dio della tua vita. Dura da accettare di non essere il padreterno, duro da accettare di avere delle fragilità, di non essere perfetto. Poi una volta finiti al tappeto, si scopre che, senza Dio, siamo poco più di niente. Non è facile per nessuno accettare di integrare le proprie debolezze, le proprie fragilità, ma è sanante e come dice San Paolo, quando sono debole è allora che sono forte”.

“E’ sciem cumm a mè ti hanno convinto che sei un fallito e che il Natale lo festeggia solo chi tiene i soldi. Voi lo sapete quanto vale un’anima? La vostra anima sapete quanto vale per il Signore? Ha un valore inestimabile, se solo lo intuiste piangereste di gioia.”

Silenzio.

“Che vi pensate che io non sono peccatore? Io so’ più criminale di voi, poi mi sono messo a fare il prete e anche dopo, che pensate? Che non si cade, non si inciampa? O solo perché sono prete, sono esente?” … Risate, applausi, “don Ca’ uno di noi” passavamo dallo stare in Chiesa ai cori dello stadio all’interno della stessa celebrazione, in rapida successione e senza sipario tra una scena e l’altra.

Quello di prima, rimasto a bocca asciutta sulla provocazione, nel frattempo voleva riprendersi il suo momento di gloria, giocando coi fogli dei canti che facevano rumore o richiamando l’attenzione di chi gli stava dietro o davanti con schicchere sulle orecchie o strattonate al giubbino nuovo, messo apposta per l’occasione.

Un dito alzato, nessuno aveva chiesto la parola, ognuno se l’era presa infilandosi nella frazione di secondo quando si creava un minimo di silenzio. Ma lui stavolta lo alza, in segno di rispetto verso l’altro, quello vestito da prete, che non aveva raccolto le provocazioni, ma nemmeno lo aveva sminuito davanti a tutti.

“Dici Albè ma fa’mbress, dobbiamo continuare la messa”

“Scusami se ti ho dato il tu senza manco conoscerti”. Non retrocede, lo guarda dritto negli occhi, giusto perché è sparito il collo alto, forse pure il giubbino, ha tolto le mani dalle tasche e la schiena è un po’ più dritta “e che mi volevi dare Albè se non il tu?” e gli fa un impercettibile occhiolino, poi alza gli occhi al cielo e lo fa pure a Lui.

Rinnoviamo le promesse battesimali.

Quelli che erano rimasti senza fogli per i canti, o perché li avevano fatti diventare palline o solo per stizza li avevano lanciati addosso ai compagni, sgattaiolavano dai banchi per recuperarne uno da guardare anche in tre e sentirsi parte di una corale comunitaria, anche solo sbattendo le mani o alzando la voce sul ritornello, per dire: ci sono anche io e canto.

Sulle preghiere dei fedeli don Carlo chiede a don Fabio come sono abituati a procedere non vedendo foglietti già scritti sul leggio, don Fabio risponde che i ragazzi sono abituati alla spontaneità, rimanendo nei banchi.

“Sapete come funzionano le preghiere comunitarie?” Qualche timido no sussurrato, più per vergogna che per timidezza. “E’ un po’ come quando vuoi mandare un whatsapp e non hai linea, succede se non hai più credito, no?” – “paricchià, ca dint stamm semp offline” – “Eccert, state carcerat” –

“E allora che succede? Ci sono altri che invece un po’ di connessione la hanno, ti appoggi a loro perché magari pregano da più tempo, tengono più confidenza con la preghiera, no?” e li riguarda, uno a uno, non più negli occhi, quella porta lui l’ha già scardinata. Li guarda nell’anima e loro lo sanno. E glielo fanno fare.

“Ci fanno da hotspot?” Applausi, sorrisi, stupore e meraviglia. Pure don Carlo si stupisce, “Bravo Gennà, ci fanno da hotspot, quando gli altri pregano per noi, insieme a noi, se non abbiamo credito, il nostro WhatsApp arriva lo stesso perché ci appoggiamo al wifi degli altri compagni e così da offline che eravamo ritorniamo online”.

“Per tutti i detenuti”, “per chi ha perso un fratello, un amico, un parente”, “per le famiglie lontane”, “per quelli che non possono mangiare”, poi è la volta del prete: “io vorrei pregare anche per quelli che non sono presenti, perché il Signore possa realizzare per ciascuno di voi il capolavoro” “per tutti coloro che stanno qui per il vostro bene” Vieni Signore Gesù.

“Io vorrei che questo sia il Natale più bello della tua vita” – ilarità – una voce dai banchi riporta il sacerdote alla loro realtà, quella in cui credono: “lo abbiamo scelto noi di stare lontani dalle nostre famiglie” – “Non vi preoccupate, questa assenza ci insegnerà ad apprezzare di più le cose belle a cui non davamo importanza, come per esempio la famiglia.”

«Possiamo anche aver fatto esperienza, sulla Terra, di un papà che ci ha rifiutati, non ci ha amati; il Signore oggi ci ricorda che Dio ci ama immensamente, allora, prendendoci per mano, perché siamo tutti figli e quindi fratelli, di un unico Padre, diciamo insieme “Padre nostro che sei nei cieli”». E, al momento dello “scambiatevi il dono della Pace”, il tripudio di mani che stringono, braccia che avvolgono, occhi che accarezzano. Cuori che si incontrano e che si riconoscono. A momenti lo scambio della pace durava più della intera celebrazione: ci sono voluti i sorveglianti che, avanzando al centro, tentavano di invitare i ragazzi a ritornare al loro posto. Ma ci pareva proprio che lo facessero controvoglia, e solo perché tra i banchi c’era pure il direttore.

Al momento della consacrazione dell’Eucarestia chi era rimasto seduto è stato invitato con garbo, dal direttore, a mettersi in piedi, chi aveva rimesso il cappello, a toglierselo di nuovo. Chi borbottava negli ultimi banchi spontaneamente si era ammutolito. Non del tutto, forse, se il sacerdote, senza mai distogliere lo sguardo dal Santissimo ha esclamato con autorevolezza “wagliù” Silenzio tombale – “chist è o mument chiù importante, perché stiamo per ricevere Gesù, adesso c’è questo dialogo a cuore a cuore con Gesù, per chi vorrà fare la Comunione, questo è già Natale perché, quando teniamo Gesù nel cuore, di che abbiamo bisogno più?”

“Nell’anima scende, il tuo respiro…” i canti sostengono il viaggio, l’incontro, e incoraggiano anche i più refrattari, quelli che vogliono con urgenza incontrarLo ma sono lievemente incerti dal retaggio di una confessione non fatta. Questo è il momento, anche del proponimento a confessarsi. Natale è ora, Natale è oggi.

Applausi liberatori, cori da stadio, fischi di giubilo.

PREGHIAMO, il sacerdote riporta ai ranghi dei banchi per la benedizione.

Alla fine della celebrazione, dopo “che il Signore vi benedica nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” il sacerdote ospite è sceso tra i banchi, ma tutti ci siamo chiesti se fosse mai risalito a celebrare tanto si confondeva nel gioco delle parti, non fosse altro che aveva una talare viola e forse un poco si distingueva se ci prestavi attenzione. I ragazzi lo hanno accerchiato, con una minima distanza di sicurezza perché loro avevano una reputazione da difendere, mai che si dicesse che avevano bisogno di ancora 5 minuti di occhi negli occhi, di una mano sulla spalla, di un buffetto che era una carezza travestita, men che meno di un abbraccio forte, violento, come si fa tra uomini, con tanto di pacca rumorosa sulla schiena, mai che si pensasse alla tenerezza rubata, alla infanzia violata, alla propria storia tradita.

Loro, gli intemperanti, gli sbruffoni, gli insolenti di un’ora prima, ora cedevano il posto a una specie di indolenza, di chi vorrebbe fermare il tempo e mai allontanarsi da quel posto qualche volta schernito, bistrattato, disprezzato, preso in giro che era la piccola cappella dove il presepe si è messo in scena da solo e noi, noi tutti, ci siamo fatti presepe.  Non come quelli già confezionati ma come uno di quelli da reinventare, modificare, rivestire e dal quale lasciarsi rivestire.

L’intento, la richiesta, la promessa, il proponimento, è quello di tornare, per fare comunione, o anche solo stare insieme, affinché questo presepe sia realmente un evento intimamente dinamico, come disse papa Francesco quando era solo padre Bergoglio e duri tutto l’anno, non solo una manciata di giorni di un fine dicembre, un’avventura misteriosa dove ogni personaggio nasconde il suo senso in questo grande disegno che ogni anno replica la sua prima edizione.

Stupore e meraviglia, fino alla fine, non solo quando Simone ha chiesto “scusa se ti ho dato del tu”, ma anche quando Christian ci ha abbracciati tutti con gli stessi occhi con cui guardava le corde della chitarra, quando Genny ha chiesto , nell’orecchio del loro sacerdote se potevamo ritornare, quando Kevin si è tolto il cappello e ha abbassato gli occhi per nascondere il sacro senso di vergogna, quando Mohamed, italianizzato Matteo, ha chiesto il permesso di vedere cosa stava succedendo in quella piccola chiesa dove non era mai entrato e da cosa era causata tanta gioia, tanta quanta ne leggeva nei volti dei compagni che ne uscivano. Non ci era mai entrato, “io musulmano” in un italiano imparato da non moltissimo, non sapeva del presepe, ha accettato la cioccolata e l’abbraccio di don Carlo, due parole scambiate con uno che non pareva un prete e che forse non sapeva che lo fosse, poiché lo ha incontrato fuori, con giubbino, felpa e zaino, ma senza camice, senza colletto, come don Fabio. Stupore e meraviglia ha colto noi che dovevamo prendere il traghetto delle 19 e alle 19.30 eravamo ancora lì nel cortile, perché qualcuno voleva salutare di nuovo, qualcun altro non aveva ancora stretto la mano per la seconda volta e qualcun altro ancora non voleva proprio saperne di rientrare in stanza, che poi si chiama cella, ma poiché stiamo al minorile fa meno impressione chiamarla stanza, più poesia chiamarla stalla, più sognante chiamarla mangiatoia.

E le guardie ci guardavano storto ma con stupore e meraviglia pure loro perché a causa nostra l’orario di libera uscita nel cortile si era allungato e allargato di parecchio, ma non potevano sgridarci perché tra noi c’erano pure don Fabio e il direttore e poi perché, diciamoci la verità, l’evento ha fatto sorridere anche loro e pure loro si intrattenevano a guardare gli abbracci, le strette di mani, gli sguardi fraterni, più che ben volentieri. Chissà, forse pensavano al turno che doveva finire o alle regole da rispettare, al rientro nei ranghi difficile da riconquistare in quegli adolescenti che, per quanto rei, restano adolescenti nell’anima e corrono, si rubano le cioccolate facendo finta di non averle avute e meravigliano, meravigliandosi, scherzano e osano. Osano nel pensare che anche per loro esiste un disegno che straccia le etichette e che è tutto in divenire, purché aprano le finestre. Quelle del cuore. Stupore e meraviglia e il Bambino non era ancora nato.

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