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GMG2023 – 6° giorno

Le luci del sesto giorno ci hanno sorpresi quando pensavamo che solo da pochi minuti ci eravamo addormentati.

Questa notte deve essere accaduto qualcosa di strano, a Ischia ci dicono abbia fatto un po’ di maltempo, nessun danno per fortuna ma qui deve essere passato uno tsunami a nostra insaputa.

Dalla via crucis di ieri sera e tutto quello che ha lasciato, stamattina le cose sembrano peggiorate e non pare, nell’immediato, che abbiano intenzione di cambiare registro.

Siamo improvvisamente diventati altro, non si può spiegare, sembriamo evaporare in una dimensione surreale e volteggiare come se non avessimo corpi fisici, limiti, contorni. Ci amalgamiamo in un NOI senza deciderlo, senza volerlo, senza averlo nemmeno mai pensato che potesse accadere. E così siamo quel ragazzo con la maglia gialla che sorride con gioia offrendoci la colazione; siamo quell’adolescente che è partita da Ischia titubante e un po’ impaurita, nel dubbio che potesse non reggere la lontananza dalla famiglia; siamo quel sacerdote che si è assunto la responsabilità di condurre un gruppo intero di giovani in un paese straniero, confidando, in emergenza e sempre, nel buon Dio; siamo le mamme, le nonne, le zie che ci hanno accolto ed accudito, sorriso e finanche ringraziato per esserci fidati ed affidati; siamo quel parroco brasiliano, straniero in un paese straniero che apre le porte allo straniero, che parla un po’ portoghese ed un po’ italiano e che commosso per il successo strepitoso ottenuto, ringrazia i suoi collaboratori laici senza i quali, dichiara apertamente, che nulla di tutto quello che è accaduto sarebbe potuto succedere; siamo quella coppia di marito e moglie di Mafra, che si son divisi i compiti, marito per la liturgia e cerimoniere, moglie per l’accoglienza degli italiani e siano il resto, in ordine sparso,  della comunità dove ognuno ha il suo ruolo, prezioso e imprescindibile, in comunione col sacerdote e siano il coro che chissà quante prove ha fatto per questo “symbolum” in portoghese e dopo la prima parte siamo quel coro improvvisato e senza prove, di ischitani che riprendeva lo stesso “symbolum” in italiano. Siamo l’universalità della musica, il linguaggio unico che vibra nell’eco della Chiesa e tocca le casse armoniche che nemmeno pensavamo di avere …e ancora funzionanti.

Poi siamo il clik di chi scatta da un lato e chi riprende il video dall’altro e siamo lo scatto stesso dove una intera comunità, “Igreja paroquial de São Miguel de Alcainça” ha le magliette italiane e quelle portoghesi, le bandiere italiane sui portoghesi e quelle portoghesi sulle spalle degli italiani, e poi siamo cittadini del mondo e seguaci di Cristo, perdendo contorni, nazionalità e lingua che a quanto pare, è diventata universale. Siamo l’abbraccio di chi parte e di chi resta, siamo le lacrime di gioia e di nostalgia per tutto l’amore che resta da domani in poi, siamo la promessa di un cartello che dice “Alcainca avrà sempre una porta aperta per i nostri amici di Ischia” e siamo la promessa che Ischia li aspetta, sperando quanto prima perché stiamo ancora qui e già ci manca, tutto, tutti, in senso lato e universale.

La comunità parrocchiale di Alcainca, si è destata prima di noi, al nostro risveglio erano già lì pronti ad aspettarci, sorridenti, frementi, come se stesse per accadere qualcosa di importante e che non bisognava perdere tempo. Sarà stata solo una sensazione ma di fatto era tutto pronto e l’amico “Portoghese” si era già mosso dietro le quinte, le quinte delle tende messe su nella palestra, che separano i maschietti dalle femminucce, minorenni, le quinte della sagrestia della parrocchia dove ci attendevano per la Santa Messa, le quinte del velo che da ieri sera, abbiamo il sospetto si stia per squarciare.

La messa in due lingue, don Marco che diceva l’omelia, il don brasiliano/portoghese che traduceva in simultanea. Anche le orazioni, lente e in due lingue.

Al momento della comunione, appena appena accennato “Tu sei la mia vita, altro io non ho, tu sei la mia strada, la mia verità” in portoghese ed in italiano, “Nella tua parola io camminerò” le dighe, che hanno retto a stento fino a ieri sera, hanno ceduto definitivamente rompendo i fragili argini delle nostre precarie sovrastrutture mentali. Le povere volontarie si ritroveranno ad asciugare fiumi di lacrime portoghesi ed italiane che prima di ripartire abbiamo depositato in quella piccola, meravigliosa, chiesa. Momento epico, unico, in cui, insieme, ischitani e portoghesi, in totale comunione e resa, sotto il nome di Cristo abbiamo sperimentato finalmente il concetto di unità e lo abbiamo fatto tutti in prima persona, da protagonisti.

In chiesa, la loro parrocchia, è diventata la nostra parrocchia, tutti presenti, noi, miscelati nei banchi, sull’organo, ovunque, ci siamo smarriti tutti, per ritrovarci sotto un unico altare, sotto un’unica croce, un unico Corpo. E il “Portoghese” è ricomparso sornione, con l’aria di chi pensa “E qui vi volevo e vi aspettavo”

Mammamia, Questo sta dappertutto!

Il tempo da trascorre nell’attesa della veglia consentirà di riposare, trastullarsi coi cellulari, riflettere. Ehm, no, abbiamo fatto i conti senza il “Portoghese” – “ma non si diceva l’oste?” – “sì ma qui il Portoghese è come il nero, sta bene dappertutto”. Sullo smanettare coi cellulari siamo un po’ sfortunati, il parco è arrivato a circa 800 mila persone e ancora si sta riempiendo, la connessione è pressoché inesistente per la banda totalmente satura e quindi addio a tiktok, instagram e facebook.

Chi può si stende sul grande telo blu che dovrebbe isolarci dalla umidità della sera che inizia a calare, si preparano le postazioni per trascorrervi la nottata e ci prepariamo con il naso all’insù, stendendoci giusto un momento, nemmeno fossimo da “Divani&Divani” e volessimo provare il divano. Le immagini si susseguono una dietro l’altra, con la stessa intensità con cui le abbiamo vissute. Sembrano passate mille vite da quando ci siamo imbarcati da Ischia e ora, eccoci qua, a viverci ed essere un noi, consapevoli e pure un po’ preoccupati che torneremo diversi da come siamo partiti.

Se questa cosa che ci sta succedendo, travolgendoci l’anima e le nostre precarie, oltre che confuse, certezze, dovesse mai avere un senso, abbiamo la (quasi) certezza che non è su questo prato che lo scopriremo, a meno che da un momento all’altro non faccia capolino il nostro amico “Portoghese” ed ammiccante urli “sorpresaaaa!”

Quello è un furbo, mica tutto e subito, concentrato sì, fino all’overdose, ma da diluirsi nel tempo e nello spazio, come le nuvole che scorrono in questo cielo di Lisbona e non saranno più le stesse che sono appena passate, né quelle che stanno per arrivare; un continuo mutamento, evoluzione, cammino. E forse il senso sta proprio in questo cammino che ognuno di noi fa e farà, mettendoci il suo.

La folla si compatta, forse siamo davvero diventati tanti, il Papa sta per arrivare, lo percepiamo dalle urla che si sentono in lontananza, dagli elicotteri che si avvicinano un po’ troppo alle nostre teste e da qualche aereo militare che vola più su rispetto allo spazio aereo degli elicotteri.

Sì, sta proprio passando nel cordone misero e approssimato, lasciato libero dalla folla nutrita e si percepisce l’ansia e l’attenzione degli addetti alla sua sicurezza che svolazzano le braccia quasi ad allontanare chi è pericolosamente troppo vicino al corteo delle auto papali.

Sul palco, dopo che il Papa prende posto, aprono le danze degli artisti vestiti in blu, con il sottofondo di ticchettio di tasti, un po’ inquietanti e che ricordano un po’ le vecchie Olivetti, i moderni pc, la connessione dei modem di un tempo a 256 kb che gracchiavano durante il collegamento, i moderni calcolatori aziendali. Un misto di byte in connessione tra loro, come una Matrix di dati e immagini, un flusso di informazioni che inondano la nostra realtà. Quanto bello sarebbe poter spegnere un giorno, un giorno intero, tutti gli apparecchi elettronici e riconnettersi alla vita.

Dai maxi schermi campeggia il “ehi tu, parlo con te!” in tutte le lingue, perché fosse chiaro che ce l’ha con ognuno di noi e ognuno di noi chiama per nome.

Papa Francesco sa come catturare l’attenzione di noi giovani, qualche volta sembra un nostro coetaneo dalle facce buffe che fa!

Parte subito, senza perdere tempo con preamboli. Invita alla riflessione, chiede in maniera autorevole che noi tutti gli riconosciamo, un minuto di silenzio per andare a cercare nei fondi della nostra memoria quelle persone che ci hanno fatto del bene lungo il nostro cammino, i Raggi di Luce li chiama, che evidentemente, se ci sono è perché hanno radicato in noi momenti di autentica e preziosa bellezza. Ecco, dice, siate radici anche voi di raggi di luce per chi incontrate, perché la gioia è missionaria, non possiamo tenerla per noi, va condivisa. E ci guardiamo intorno, non solo nel nostro quadratino blu, nel sacco a pelo vicino, negli zaini tutti uguali, ma andiamo oltre con lo sguardo, oltre la postazione, fin dove lo sguardo si perde e ci chiediamo se quel puntino laggiù, del quale a stento individuiamo i contorni, abbia in qualche modo incrociato il nostro cammino e radicato dentro di noi. È un maschio, di media altezza, ha i capelli ricci, mossi (e forse avrebbero bisogno di uno shampoo), sventola una bandiera, non riusciamo a capire di che nazionalità sia, sorride, ha gli occhi luminosi, chiunque sia, sì, anche lui fa parte delle nostre radici.

Poi, sempre papa Francesco, passa al motto degli alpini, che evidentemente gli piacciono molto, si vede da come gli brillano gli occhi quando ne parla. “l’arte di salire non è non cadere mai ma non rimanere a terra” e nel frattempo sui monitor compare in tutte le lingue “appoggia la mano sulla spalla dell’altro”. Implacabile il Papa infierisce con “l’unico momento che è lecito guardare una persona dall’alto in basso è quando ci avviciniamo e la aiutiamo a rialzarsi”.

Già da qui in poi potremmo ripiegare i nostri materassini da palestra, i nostri teli, sistemare gli zaini e andare via. Quando è troppo è troppo pieno e a lungo andare diventa troppo incontenibile.

Per oggi sarebbe già sufficiente il bagaglio di considerazioni, riflessioni, spunti di discernimento e quant’altro. La mattinata ha avuto le sue intensità, il Papa ci ha storditi, messi KO, a tappeto, ed è inutile cercare qualcuno che ci rialzi, siamo tutti stesi, con gli occhi persi, sotto questo cielo di Lisbona.

Non sapevamo noi, poveri fanciulli ingenuotti che il meglio doveva ancora trapassarci e che nel crepuscolo di un tramonto ormai dissolto, aleggiava nell’aria quell’odore familiare, di quello che entra ed esce senza cartellino, né del pellegrino, né del clero, né del giornalista. “Il Portoghese”.

Si affacciano sull’altare una schiera di sacerdoti con a capo uno più anziano che da lontano sembra il papa, ma non è possibile che sia lui perché il papa è lì, a destra dell’altare, seduto sulla sua sedia a rotelle ad aspettarli. Arriva il Santissimo, iniziano a tremare le vene nei polsi al solo intravederlo. Ci mettiamo dritti, aggiustiamo le schiene, sgranchiamo le punte dei piedi cercando di guadagnare qualche centimetro di altezza, cerchiamo un varco per il nostro sguardo, oltre le spalle, i capelli, i cappelli di chi ci sta davanti. Oltre gli striscioni, le bandiere e i rami degli alberi. Quando sembra averlo trovato e l’Altissimo viene esposto…… si ferma il tempo. Se fossimo al grande fratello sentiremmo dalle casse acustiche “FREEZE”

Il Silenzio, implacabile, surreale, totalizzante, scende su tutto il parco; come una coltre di gomma piuma avvolge tutti i settori, anche quelli più lontani da dove arrivavano, di tanto in tanto ridolini e battutine, voci più o meno alte se non altissime in lingue diverse.

Il silenzio scende imperturbabile di quanto accade intorno, e sordo, come una insonorizzazione totale e totalizzante. Finanche gli elicotteri sembrano essere spariti dai cieli di Lisbona, a meno che non riescano, in qualche modo a noi ignoto, a volteggiare in aria con le pale ferme. Incredibile, sembra impossibile, ognuno ha la sensazione di avere le orecchie ovattate. Un milione e più di persone che davanti a Gesù Sacramentato, all’unisono, si ammutoliscono. L’unica cosa che si sente, appena, appena, è il fruscio degli attrezzi di quelli della postazione media da dove trasmettono la diretta. Il resto è il nulla cosmico, nessuna cosa di nessuna importanza e LUI al centro che si fa guardare da ognuno di noi e ognuno di noi, pellegrini, forze dell’ordine, addetti alla sicurezza, artisti, sacerdoti, chiama per nome. Uno ad Uno. Sembra un fatto impossibile tanto che è incredibile, a volerlo fare apposta non sarebbe mai riuscita con un milione di persone nello stesso posto, stipate come sardine, con il caldo, la fame e la stanchezza addosso. Il tempo si è fermato, eravamo stesi e ci siamo rialzati, lo abbiamo visto e Lui ci ha visto, ha fatto in modo che ognuno di noi potesse riuscire a vederlo e senza eccessivo sforzo. Il primo passo lo abbiamo fatto noi, tutto il resto lo ha fatto LUI.

E ci siamo inginocchiati. Nulla più sarà come prima perché nulla più ci appartiene come prima. Se zittisce un milione di persone senza dire una sola parola, né proclami, né altro, si corre il rischio di sospettare che davvero sia IL RE DEI RE.

Visceralmente ancestrale, tocca il fondo ed il doppio fondo dell’anima; profondità assolute per tutto lo spazio che si è preso, impenetrabile ed impermeabile a ogni se pur flebile rumore di fiato, palpabile che potevamo tagliarlo a cubetti, ma ce ne siamo lasciati avvolgere, perentorio più di un’alza bandiera militare, a tratti inquietante come può essere la risacca prima di un grande, devastante tsunami.

I fumi dell’incenso diradavano i contorni dell’Ostensorio, Quel bagliore rimaneva fulgido e vivido, quasi sfacciato e provocatorio, insolente e umile, nella sua maestosa imponenza. Saranno stati i riflessi della luce che triangolava come in un gioco di sponda tra il Santissimo e Papa Francesco, rimbalzando negli occhi di chi stava in adorazione e contemplazione, saranno stati i monitor i cui pixel in HD sembravano fuoriuscire dagli schermi come scintille di una brace appena accesa, sta di fatto che potremmo anche giurare di aver scorto, per quanto di sfuggita e con la sola coda dell’occhio, tra un guizzo di luce e l’altro, lui, “il Portoghese”. Papa Francesco se ne va, lasciandoci soli al centro del mondo, sgomenti ma inebriati, le parole non potranno mai controllare e rinchiudere l’implosione di cui siamo pervasi. Il racconto lo chiudiamo qui. L’esperienza continuerà, è una delle poche certezze che ci ritroviamo nelle tasche svuotate di tutto quello che non serve.

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