Chiesa e comunità “minoranze creative”
Tra dicembre e gennaio scorsi ho tenuto alcuni incontri a un gruppo di laici, operatori pastorali di alcune parrocchie, che frequentano l’anno di approfondimento della Scuola Diocesana di Formazione Teologica. La tematica era ovviamente quella a me più cara, l’evangelizzazione, alla luce sia degli Atti degli Apostoli, che del cammino della Chiesa italiana e diocesana negli ultimi 60 anni. Dico questo non solo perché sento di condividere con voi lettori di SdT una bella esperienza (almeno per me, spero anche per gli studenti), e di evidenziare l’importanza di questa Scuola, spesso ignorata in modo colpevole da molti (non si dimentichi che la Scuola è stata una delle prime in Italia, essendo nata nel 1986); ma anche perché mi ha dato molto da pensare il punto di arrivo di questi incontri, comune a tutti i discorsi di questo tipo da 30 anni a questa parte.
Si tratta di una domanda, inevitabile, che è poi sempre la stessa a partire da quel giorno di Pentecoste in cui lo Spirito riempì la mente e il cuore dei discepoli di Gesù: una domanda cruciale, a cui è necessario rispondere se vogliamo davvero fare passi in avanti nella rievangelizzazione delle nostre terre: “Che cosa dobbiamo fare?” (At 2,37). Vi è infatti una diffusa consapevolezza che sia necessaria una “nuova evangelizzazione”, che si debba impiantare nuovamente la fede anche – se non soprattutto – nei paesi di antica tradizione cristiana come l’Italia, ma non è chiaro da dove iniziare. Come Papa Francesco, ormai tutti ci rendiamo conto che «non siamo nella cristianità, non più!
Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati… Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata». Anche se molti sembrano vivere in una continua illusione che ciò non sia vero, o che sia una situazione facilmente recuperabile, e continuano a comportarsi come se ci fossimo fermati a decenni fa, la verità è questa, e la sperimentiamo ogni giorno.
Ma, appunto: «Che cosa dobbiamo fare» perché il Vangelo di Cristo sia visto nuovamente come messaggio di liberazione per l’uomo integrale, sperimentato come apertura a un “oltre”, vissuto come possibilità di armonia interiore e come strumento di comunione e pace in un mondo diviso e lacerato? Che fare perché l’annuncio del Vangelo da parte della Chiesa ritrovi la propria carica profetica e di contestazione della mentalità di questo mondo (Rom 12,2)? Spero sia chiaro che non si tratta tanto di “riconquista” o di ritorno a essere maggioranza, il tempo della cristianità è finito, la storia è andata avanti: si tratta invece di assumere la condizione di minoranza facendo in modo che ciò significhi maggiore fedeltà al Vangelo e libertà creativa.
Non a caso, il giovane professore Ratzinger nel 1969 in modo quasi profetico (io dico: con una lucida coscienza dei processi storici che in quegli anni iniziavano a intravedersi) affermava: «Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi…: da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la fede e la preghiera al centro dell’esperienza e sperimenterà di nuovo i sacramenti come servizio divino e non come un problema di struttura liturgica». Minoranza, sì, ma creativa, aggiunse poi da Papa. È quanto i vescovi italiani hanno recentemente affermato: «Se il termine “minoranza” mette in rilievo un dato incontrovertibile, l’aggettivo “creativa” apre a nuove possibilità di presenza e di impegno. La creatività, infatti, implica la libertà di parlare con coraggio, con voce profetica ispirata dal Vangelo, con una prospettiva missionaria e ripensando anche le strutture ecclesiali.
Non si tratta di inventare strategie, ma di essere lievito che fermenta la massa». Penso che preparare la Chiesa – e più in concreto, le nostre comunità – ad essere “minoranze creative” in questo senso, senza paura di ripensare le nostre stesse strutture, è la risposta alla domanda: “Che cosa dobbiamo fare?».
di Pino Natale
