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Parrocchia San Domenico – Ischia

Dallo scorso 28 ottobre fino al giorno 31, presso la rettoria di San Domenico si sono tenute le Sante Quarantore in preparazione alla Solennità di Tutti i Santi, guidate dal Reverendo Parroco, don Giuseppe Nicolella. Esse sono state per tutti, giovani e adulti, un’oasi per rinfrancare l’anima, in questo mondo che sembra correre sempre più veloce, distogliendoci però dall’unico vero centro e fulcro della nostra esistenza: Gesù Cristo.

Dedicare ogni giorno un tempo per stare in adorazione davanti a Gesù Eucaristia, non solo ci ha permesso di vedere rinnovata e rinvigorita la nostra fede – abbiamo potuto riconoscere Gesù nell’Eucaristia, nella quale è realmente Presente in Corpo, Sangue, Anima e Divinità –, ma anche di presentare ai piedi del Signore le nostre vite, di esporGli le nostre angosce e di aprire il cuore al Suo immenso amore, così da ascoltare ciò che aveva da dirci.

In queste Sante Quarantore, guidate e animate dalla predicazione di don Nicolella, siamo stati invitati a riflettere, meditare e mettere in preghiera ai piedi di Gesù-Eucaristia il Sinodo dei Vescovi appena iniziato e il Sinodo della Chiesa Italiana, iniziato a maggio e che si concluderà nel 2025.

In questi giorni di preghiera, abbiamo potuto vedere come Sinodo significhi “cammino (vissuto) insieme” e come, per noi cristiani, la Via da percorrere sia riconducibile, più che a qualcosa, a Qualcuno.

Gesù stesso è il nostro Cammino, la nostra Via, come Egli afferma nel Vangelo: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6). Proprio per questo, abbiamo considerato come il cammino sinodale appena iniziato non potrà ridursi anzitutto a svolgere riunioni, affrontare argomenti, fare sondaggi per verificare l’orientamento della maggioranza, neppure interpellare i più vicini (persone che frequentano), o i lontani, fratelli credenti ma “raffreddati” nella pratica, né tantomeno chiedere l’opinione di quanti non fanno ancora parte della famiglia della Chiesa.

Ciò potrà anche avvenire, ma non sarà anzitutto questa la strada per rinnovare la Chiesa e costruire un “nuovo stile” di vita alla luce del Vangelo di Cristo. La strada è sempre “una” e sempre “nuova”: Gesù di Nazareth, annunciato, conosciuto e amato.

Abbiamo potuto riflettere anche su come il tempo contemporaneo e le nuove mode culturali, così lontani dalla fede e attraversati da tante preoccupazioni, sembrino allontanarsi sempre più da Cristo, il quale però, oltre a essere la Via, è anche la Verità.

Nuove ideologie, nuovi idoli sempre più vuoti e insoddisfacenti, nuovi modelli culturali sempre più poveri delle virtù e della luce di Cristo vengono continuamente proposti alla nostra attenzione. In una tale “intemperie culturale”, diventa sempre più evidente come stia a noi, battezzati in Cristo, fare di ogni occasione, anche di questo cammino sinodale, un’opportunità per riconoscere quella via che già è stata tracciata, ovvero Gesù, essenza e significato di tutto: del mondo, della storia e della nostra stessa esistenza.

Proprio questo esercizio ci permetterà di essere grati a Nostro Signore che per volontà di Dio Padre e con l’opera dello Spirito Santo ci ha redenti. Davanti a tanta bellezza, abbiamo pregato e preghiamo che non sia la nostra miseria a intristirci e a schiacciarci, ma la sorpresa per l’immenso amore di Cristo, la sorpresa per il Suo averci scelto, la sorpresa per il Suo chiederci costantemente, come a Simon Pietro, “Mi ami tu più di costoro?” (Gv 21,15), la sorpresa per il Suo attendere con divina pazienza la nostra risposta al riempirci di meraviglia e a farci correre dietro a Lui.

Immergendosi nelle Quarantore, appare come la pienezza della verità e dell’amore di Dio sussistano pienamente nella Chiesa Cattolica e come noi siamo chiamati a servire questa Verità e questo Amore annunciando Cristo, senza vergogna e senza lasciare che alcun compromesso umano possa mai manipolare la fede che abbiamo ricevuto. Abbiamo pregato e preghiamo di poter imitare Gesù nell’orto degli Ulivi, per dire con Lui e in Lui al Padre: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà (Lc 22,42), così da arrenderci al Padre e dirGli che, anche in questo momento storico, ci fidiamo totalmente del Suo Amore e ci abbandoniamo nelle Sue mani, obbedendoGli e compiendo, con l’aiuto della grazia, la Sua Volontà.

Nella parola Sinodo appare, oltre al termine οδός (via, cammino), anche la preposizione greca σύν, che significa «con, insieme»; il Sinodo è infatti un “camminare con” Cristo e, in Cristo, con i fratelli. Per camminare insieme a Cristo sarà necessario trascorrere del tempo con Lui, anzi trascorrere tutta la vita con Lui, così da essere e vivere interamente per Lui, che nell’Eucaristia splende come il fine ultimo di tutto.

In questi giorni di preghiera e adorazione, la nostra mente si è aperta in modo nuovo alle parole di san Paolo “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal 2,20). Solo unendoci a Cristo come Sue membra, infatti, ci è dato di comprendere realmente noi stessi i reali bisogni dei fratelli: è Cristo che li conosce e permette di vederli; chi sta con Lui vede le necessità dei fratelli e assume lo stile, cioè l’amore di Cristo. Affinché ciò possa accadere, tutto dipende dalla nostra volontà e dal tempo che dedichiamo a Gesù, alla preghiera. Dal momento che Lui c’è e si rende Presente, a noi resta soltanto il dirGli di Sì.

Abbiamo visto quanto sia necessario comprendere realmente com’è organizzata la nostra giornata, quanto tempo dedichiamo al Signore e se rispettiamo gli appuntamenti che Cristo ci offre. Egli non ha bisogno di appuntamenti, ma noi sì.

C’è bisogno di avere dei momenti, dei luoghi, degli appuntamenti per sostare in compagnia di Cristo, altrimenti il nostro cuore si diseduca. In questi giorni di preghiera, abbiamo potuto essere anche rimproverati da Gesù, come lo fu Pietro nell’orto degli ulivi. “Non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me” (Mt 26,40). Se non si sta con il Signore, non si conosce più chi Egli davvero sia e si finisce con il predicare un altro Dio. “Vegliate e pregate” (Mt 26,41).

Il Signore ci ha ricordato ancora, dopo duemila anni, attraverso la Sua Parola, che è Parola viva, quale debba essere il pilastro, il fondamento, il cardine e il caposaldo del nostro vivere: la preghiera. Solo questa ci illumina e rinvigorisce, ci preserva dal cadere in tentazione e ci sostiene lungo la strada che Dio traccia per ciascuno di noi.

Tre sono stati i nostri riferimenti in questi giorni di adorazione: San Domenico di Guzmàn, il santo Curato e Madre Teresa di Calcutta. Il primo, grandissimo esempio, parlava con Dio, o parlava di Dio. Il secondo a un confratello deluso per la poca affluenza nella sua chiesa, chiedeva Quanto lavori di ginocchia? E la terza, Madre Teresa di Calcutta raccomandava alle sue consorelle, per amare e servire i poveri, almeno quattro ore di preghiera. Le parole di questi tre santi subito si sono scontrate con i nostri immancabili “Eh, magari, ma io non ho tempo!”. Ma pian piano, abbiamo potuto renderci conto di quanto tempo sprechiamo in cose futili e secondarie, rispetto all’unica necessaria: stare con il Signore.

Abbiamo scoperto di avere una gestione del tempo sbagliata, che pone al centro di tutto le cose di questo mondo e non Dio. Qualcuno potrebbe obiettare, dicendo che la quantità non corrisponde alla qualità, ma nemmeno questo è vero: le due cose non sono in opposizione, anzi dipendono l’una dall’altra.

Più siamo stati in preghiera con Cristo, in questi giorni, e più abbiamo potuto lasciare che scrutasse il nostro cuore, arrenderci dinnanzi al Suo Amore, comprendere che, in una società consumistica, dove si vuole tutto e subito per poi metterlo da parte, Lui sia l’unico punto fermo, l’unica certezza eterna: Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. (Mt 24,35).

In queste Qaurantore ci siamo sentiti chiamati, attraverso la predicazione di don Nicolella, alla contemplazione di Cristo quale vera Via, a camminare con Lui e quindi a fare ascesi, a lasciarci sollevare dalla nostra miseria e a camminare con i fratelli in una maniera nuova, perché “divina”. La meta che ci è stata proposta è più che ambiziosa: tendere alla perfezione e quindi conformarci e lasciarci conformare a Cristo. “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48) è diventato il nostro intento.

Ma per camminare con Cristo, ci è stata indicata una compagnia indispensabile, quella virtù dell’umiltà. A nulla serve ostinarsi nell’apparire o nel primeggiare, ma a tutto è utile domandare dal Cielo la disponibilità a sedere all’ultimo posto. In questa, come in ogni altra virtù, occorre mettersi alla scuola di Cristo.

Anzitutto, occorre comprendere il vero significato dell’umiltà. Dell’umiltà non bisogna riempirsi la bocca; parlarne è bello, ma fin troppo facile. A noi è chiesto anzitutto e soprattutto di praticare e vivere l’umiltà. Questo sarà anche il modo più “eloquente” per farla conoscere: “Le molte parole non saziano l’anima; ma dalla buona vita è confortata la mente e dalla pura coscienza nasce una gran fiducia.”

Circa la definizione, l’umiltà è anzitutto una virtù cristiana, cioè una virtù che appartiene anzitutto alla Persona di Cristo, il Quale ci ripete oggi e sempre: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,30). Occorre perciò mettersi alla scuola di Cristo, alla scuola di Colui che lavò i piedi ai Dodici, alla scuola di Colui che è l’Umiltà pura. L’umiltà, quindi, non disconosce né mortifica il proprio io, ma lo piega sui bisogni altrui, facendolo disponibile ad accettare ogni cosa per amore.

L’umiltà non disconosce l’io, non disconosce l’essere, ma ci mostra come noi siamo persone e abbiamo da imparare a conoscerci in tutto: nei lati positivi come in quelli negativi, nei pregi come nei difetti. Preso atto della nostra condizione umana, per somigliare a Cristo, dobbiamo lasciare che Lui “si pieghi” su di noi e, così, imparare a “piegarci sul prossimo”: “Non è male che tu ti sottoponga ad ogni persona, ma gran male sarebbe se ti ponessi innanzi anche a uno solo” (Libro Primo del “De imitatione Christi”). Dobbiamo “renderci disponibili ad accettare ogni cosa per amore”: così saremo simili a Cristo. Ad ogni modo, affinché ciò avvenga, è necessario un metodo, o – se vogliamo – un “corso” da seguire.

In primo luogo, occorre accettare le umiliazioni, per crescere nella virtù dell’umiltà; Gesù stesso permette le umiliazioni, così da “ammaccare” la nostra superbia, e ci offre il Suo esempio nella Passione: Lui le ha accettate tutte, Lui che è mite e umile di cuore. In secondo luogo, occorre accettare le sofferenze di ogni genere, perché anche il dolore, vissuto in Cristo, converte e conduce all’umiltà, facendoci più simili a Lui.

Il dolore, la mortificazione nel fisico e nello spirito, il sentimento di soggezione dinanzi a Dio quando gli avvenimenti ci sovrastano, ci fanno capire cosa significhi essere umili e ci mettono dinnanzi all’immagine, alla concezione che ognuno ha di sé stesso, rendendola “paglia”, rendendola nulla rispetto alla concezione, allo sguardo che Dio ha su di noi.

In terzo luogo, metodo per imparare l’umiltà è la gioia, anzi l’umiltà stessa conferisce la gioia: “La pace sta sempre con l’umile, ma in cuore al superbo è spesso gelosia e collera”. Abbiamo da imparare a gioire per tutto, da imparare, sull’esempio del Poverello di Assisi, a sperimentare la “perfetta letizia”.

In questi giorni di adorazione davanti al Santissimo Sacramento, si è dischiuso a noi un orizzonte più grande, che non si limita al proprio “io”, ma che si tuffa nel grande “Tu” di Cristo e, in Lui, nel “tuo” di ogni fratello e, così, anche nel “Noi” della Chiesa, dove si può sempre sedere, senza paura, all’ultimo posto, perché ogni posto appartiene a Cristo.

Infine, a conclusione di questi giorni di grazia, dopo aver sperimentato come la Parola di Dio sia viva e ci parli attraverso le Sacre Scritture, nella Tradizione e secondo l’insegnamento della Chiesa, dopo aver ascoltato il Signore e averGli potuto parlare, siamo stati chiamati a fare ancora nostra una “poco conosciuta” verità: Gesù parla – e ci parla – anche attraverso quei piccoli avvenimenti, che hanno il più delle volte come protagonisti i “piccoli di Dio”.

Ci ha confortato sapere che questi “piccoli” non sono una “élite esclusiva”, ma che anzi Gesù ci ammette tutti ad una familiarità particolare, tanto grande da volerci definire “Suoi fratelli più piccoli”: ci ha fatto e ci fa Suoi fratelli. Beati sono questi fratelli, questi esempi, queste testimonianze e beati sono coloro che, con cuore semplice, rischiarato e riscaldato dalla fede, riconoscono il candore di quei piccoli che sono i bambini e, insieme, il candore di chi si riconosce piccolo davanti a Dio e, con la propria piccolezza, permette di percepire, di sperimentare la Presenza stessa di Cristo.

Rialzandoci dall’inginocchiatoio, ma con nel cuore il desiderio di tornarci quanto prima, ci arde nel cuore il desiderio e la preghiera, anche in vista dei due Sinodi che siamo chiamati a vivere, di annunciare ai fratelli quanto di buono, vero e grande ci è accaduto, di raccontare loro anche gli apparentemente più piccoli episodi di grazia,

imitando gli apostoli, che ci hanno trasmesso quanto hanno incontrato: i gesti, le parole, i miracoli, la Persona stessa di Gesù, che tanto ci ha amato e ci ama da donare la Sua vita sulla Croce e nell’Eucaristia.

Nel Sinodo, ma soprattutto nel grande cammino della Chiesa in Cristo verso la Casa del Padre, domandiamo la grazia di saper scorgere la presenza del Signore e di udire la Sua voce attraverso le persone e gli avvenimenti che compongono la nostra vita. Allora apparirà il cammino in tutta la sua bellezza, perché apparirà Cristo stesso, Via, Verità e Vita.

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