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Una vita per gli altri – Annalena Tonelli, laica missionaria

“Scelsi di essere per gli altri: i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati, che ero bambina e così sono stata e confido di continuare fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri in Lui.”

Molte le opere da lei attivate in Kenya e in Somalia, tra cui spiccano, a Borama, la Scuola speciale per sordomuti e bambini disabili e il Centro antitubercolosi, che assiste e guarisce migliaia di ammalati. Proprio a Borama venne uccisa la sera del 5 ottobre 2003, dopo trentacinque anni spesi nell’evangelizzazione

Annalena Tonelli nacque a Forlì il 2 aprile 1943, terza di cinque figli. Sin dall’infanzia si sentì chiamata a donarsi per gli altri, come raccontò nel dicembre 2001, durante un convegno al quale era stata invitata a partecipare, svolto presso l’Aula Nervi in Vaticano:
«Scelsi che ero una bambina di essere per gli altri, i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati, e così sono stata e confido di continuare fino alla fine della mia vita; volevo seguire solo Gesù Cristo, null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri in Lui. Per Lui feci una scelta di povertà radicale».

Dopo aver frequentato il liceo classico e un anno di stage a Boston in America, si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’università di Bologna. Si formò nell’Azione Cattolica forlivese, nella sua parrocchia e nella FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), della cui sezione femminile locale divenne presidente. Nel tempo libero dagli studi, organizzava convegni e incontri. Grande trascinatrice, portava le amiche al brefotrofio, trasformandole in mamme di tanti bambini. Nel 1963 contribuì in modo determinante a far nascere a Forlì il «Comitato contro la fame nel mondo», che sostiene ancora oggi un centinaio di missioni.

Il sogno dell’India e il primo viaggio in Kenya

Dopo la laurea, conseguita nel 1969, desiderava partire per l’India, che aveva imparato a conoscere mediante la lettura dei libri di Gandhi. I familiari non volevano che partisse né per l’India né per altri Paesi, ma lei colse la prima occasione possibile. Dietro consiglio di un’amica, partì quindi per Nairobi, capitale del Kenya. Ricevette l’incarico d’insegnare l’inglese nelle scuole dei Missionari della Consolata e, intanto, si manteneva lavorando come ragazza alla pari. Divenne convinta che la sua strada passasse da lì, come raccontò a un amico sacerdote, don Adriano Raineri, in una lettera del 24 agosto 1969: «Sono certa che alla fine scoprirò che anche la vita qui è grazia, perché tutto è grazia, se io dovunque mi trovo, vivo semplice, nello sforzo umile ma potente e continuamente rinnovato di imitare il Cristo».

Nel 1970 passò a insegnare nella scuola governativa di Wajir, nel nord-est del Kenya. Raggiunta da Maria Teresa Battistini e da altre compagne, diede vita a una piccola comunità di laiche missionarie. Si dedicarono in particolare ai nomadi del deserto, dai quali Annalena riconobbe di aver imparato la fede e l’abbandono in Dio. La loro presenza, comunque, era spesso ostacolata: Annalena venne presa a sassate dai bambini del luogo e in un’altra circostanza malmenata pesantemente. Ciò nonostante, con gli aiuti che pervenivano da Forlì, portò avanti un orfanotrofio, poi iniziò ad occuparsi dei malati di tubercolosi, sviluppando perfino un nuovo sistema di cura.

Tuttavia, per aver denunciato il massacro avvenuto il 10 febbraio 1984 all’aeroporto di Wagalla, venne espulsa dal Paese come “persona non gradita”; la comunità di laiche missionarie venne sciolta. Annalena, quindi, si trasferì in Somalia, prima a Merka e poi, nel 1996, a Borama. Lì fondò un ospedale con 250 letti, per i tubercolotici e gli ammalati di AIDS, seguito da una scuola per bambini sordi e disabili. Era convinta che con l’istruzione potesse evolversi la situazione economica e sociale di quella che ormai considerava la sua gente. Si oppose anche alla pratica delle mutilazioni genitali femminili, appoggiata da altre donne somale.

Tenendosi in costante aggiornamento, ottenne diplomi a Londra e in Spagna per la cura delle malattie tropicali e della lebbra. Pur non essendo medico, quindi, visse lavorando per i malati: mise a punto una profilassi per la tubercolosi, utilizzata oggi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in tutto il mondo.

La radice della sua notevole attività era nella preghiera contemplativa, nella meditazione di testi di autori spirituali e nell’adorazione eucaristica, quando possibile. Nei suoi ritorni in Italia frequentava l’eremo di Cerbaiolo, tra Toscana e Romagna, o quello di Spello, o ancora a Campello sul Clitunno. Sentiva costantemente la tensione verso una vita più ritirata, ma il pensiero dei suoi somali la spingeva a tornare da loro. Da sola imparò a convivere con il rischio quotidiano: era continuamente minacciata, perché bianca, donna, cristiana e non sposata. In una delle rare interviste che ha rilasciato, dichiarò: «Non ho paura, e anche questa è una cosa che non mi sono data. Sono stata in pericolo di vita, mi hanno sparato, picchiata, sono stata imprigionata, ma non ho mai avuto paura».
Quando parlava dei suoi somali e della difficoltà di essere cristiana, fra popolazioni di fede diversa e spesso intollerante, diceva riassumendo: «Loro non lo sanno». Durante un suo passaggio a Forlì, sorridendo, spiegò meglio: «Siccome mi vogliono bene, hanno sperato che diventassi musulmana. Ma da quando un vecchio capo ha decretato che andrò in Paradiso, anche se sono un’infedele, tutti accettano che io resti l’unica cristiana del luogo».

Il 25 giugno 2003 ricevette dall’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati il premio «Nansen Refugee Award», appunto per la sua opera a favore dei rifugiati e dei perseguitati. Dall’Italia e da altre parti di Europa arrivavano volontari per aiutarla: c’era chi rimaneva e chi trascorreva un determinato periodo, come le ferie estive. Veniva sostenuta dal Comitato di Forlì, ma anche da altre organizzazioni internazionali.
Tuttavia non apparteneva a nessuna congregazione od organismo religioso o laico: le bastava la scelta, compiuta nella gioia tempo addietro, di dedicarsi a Dio e al prossimo senza etichette o simboli esteriori. Donna di poche parole, era impegnata più a fare che a parlare, tanto meno di sé stessa. Se in Italia, oltre la sua regione d’origine, poteva sembrare poco conosciuta, «le somale emigrate in Italia, i nomadi del Kenya, i tubercolotici di Manyatta, i malati di Aids di Borama e i rifugiati del Nord Somalia, cioè loro, gli sconsolati della Terra, conoscevano bene Annalena Tonelli», ha scritto Franca Zambonini su «Famiglia Cristiana».

Il 5 ottobre 2003, mentre compiva l’ultimo giro tra gli ammalati di Borama, Annalena venne uccisa con un colpo alla nuca, partito da un’arma da fuoco. Aveva 60 anni, dei quali 34 trascorsi in Africa. Per suo espresso desiderio, è stata sepolta a Wajir, in Kenya, presso il suo primo ospedale.

Fonte: Antonio Borrelli ed Emilia Flocchini – Santi e Beati

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