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Cosa c’è dietro la guerra lampo dei talebani

Come è potuto succedere che l’esercito afgano si squagliasse come neve al sole? Che succederà ora? Si tornerà indietro di vent’anni?

Vent’anni e non sentirli. Ecco lo slogan per la presenza occidentale in Afghanistan, cominciata nel 2001 con una guerra finta e conclusa poche ore fa con una guerra altrettanto finta. Allora seguii l’avanzata delle tribù del Nord verso Kabul. Inondate di armi e mezzi e forse denaro dagli americani, si erano tolte di mezzo e avevano lasciato soli i talebani.

Adesso è successo l’esatto contrario: gli americani se ne sono andati e le stesse tribù hanno fatto strada ai talebani. In mezzo, vent’anni di investimenti (l’Italia ha speso in Afghanistan circa 9 miliardi, gli Usa circa 3 mila miliardi di dollari), decine di migliaia di morti, una caterva di sforzi che, appena usciti di scena i militari, si sono dissolti come neve al sole. A partire da quell’esercito afghano che per anni abbiamo rifornito e martellato di esercitazioni, e che i talebani hanno travolto quasi senza sparare.

Aleggia la domanda: com’è potuto succedere? Le considerazioni generali s’intrecciano, ovviamente, con le realtà locali. Da un lato, la strategia occidentale del regime change e del nation building è garanzia di sicuro insuccesso. Non ha funzionato mai (vedi Iraq, Libia, Siria), perché avrebbe dovuto funzionare in un Paese come l’Afghanistan, che nel corso dei secoli ha rispedito a casa i più diversi invasori, da Alessandro Magno all’Unione Sovietica passando per l’impero inglese?  E poi, appunto, le caratteristiche dell’avversario. In Afghanistan solo il 20% circa della popolazione è urbanizzato.

Il resto vive in villaggi e località sperdute, spesso in valli quasi inaccessibili. Qui l’appartenenza al clan e la fedeltà alle tradizioni sono ancora virtù decisive. Abbiamo portato le medicine, fatto studiare le bambine, costruito acquedotti e piccoli ospedali. Tutte cose di cui ci sono grati. Ma non al punto da buttare alle ortiche secoli di abitudini e di convinzioni.

Le immagini che abbiamo visto negli ultimi giorni arrivano tutte dalla capitale Kabul, dove una certa quota della popolazione è giustamente terrorizzata per l’arrivo dei talebani. Ma si tratta di quelle persone che, negli anni, hanno preso confidenza con la presenza degli occidentali, ne hanno mutuato alcuni costumi, magari hanno tratto profitto dalla collaborazione. Nulla abbiamo visto, però, di ciò che accade nel resto del Paese, nei Paesi isolati, nelle piccole città. Laddove il ricatto della comune appartenenza islamica, presentato dai talebani sulla punta del fucile, deve aver avuto gioco assai facile.

Che cosa potrà accadere, ora? Bisogna distinguere. Sul piano interno, è difficile prevedere quale sarà il livello di intransigenza islamista che i nuovi talebani vorranno applicare. Sono rimasti a lungo mimetizzati nei santuari afghani e pakistani, alcuni dei loro capi non si fanno vedere in pubblico da anni per timore di essere uccisi dagli americani, qualunque previsione diventa indovinello. Certo ci sarà un giro di vite e le epurazioni saranno feroci. Difficile credere, però, che si tornerà alle abitudini di fine anni Novanta, quando per la prima volta i talebani presero il potere. Con il fotoreporter Nino Leto nel 1997 arrivai nella Kabul da qualche mese dominata, appunto, dagli studenti coranici. C’erano i roghi pubblici di musicassette e libri, ogni giorno. E mentre eravamo lì, tre eroiche suore di Madre Teresa, che avevano voluto restare, erano state prese a scudisciate perché il loro portamento, a giudizio di presunti custodi del pudore islamista, non era abbastanza modesto.

Personalmente non credo che si tornerà a quelle follie. I leader del primo movimento, con il loro estremismo, si isolarono dal mondo e furono presto fatti fuori. Gli attuali dirigenti hanno imparato dagli errori dei padri, in senso letterale: Muhammad Yaqoob, leader militare delle milizie che hanno preso Kabul, è figlio del Mullah Omar, che fu tra i fondatori del movimento originario; Sirajuddin Haqqani, responsabile delle finanze e della logistica, è figlio di Jalaluddin Haqqani, che fu un noto comandante militare. E il capo dei capi, Aibatullah Akhunzada, è un colto sessantenne, non un montanaro incartapecorito. Lo dimostra l’accortezza politica con cui hanno gestito il ritorno al potere. Hanno stretto contatti con la Cina (lo Xinyang, regione di cinesi musulmani e inquieti, confina con l’Afghanistan) e con la Russia, parlano con la Turchia, hanno mollato l’Arabia Saudita per il Qatar (la capitale Doha è da molti anni sede del loro ufficio politico), con il Pakistan non c’è mai stato e non c’è problema. In poche parole, hanno cercato una sponda presso il fronte dei Paesi che si battono per non lasciare agli Usa il dominio del mondo. Strano no, significativo sì. Considerazioni che portano a una conclusione: se è così, questi talebani 2.0 sono più insidiosi e pericolosi di quelli di una volta. Forse non meno feroci, di sicuro molto più abili.

di Fulvio Scaglione – Famiglia Cristiana
Immagine: La fuga oggi e, a destra, l’elicottero Cia durante l’evacuazione di Saigon

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