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Ecco, il Signore passò

“Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Ecco, il Signore passò”. (I libro dei Re)

Ecco il Signore passa e si manifesta in un vento leggero, una brezza. Riusciamo ancora a percepirlo questo mormorio impalpabile? Difficile, abituati come siamo a stordirci di rumori, di pensieri, di cose da fare, di divertimento; impegnati a soddisfare le richieste imperiose del nostro ego, a volte smisurato, non riusciamo più a fermarci, a ritagliarci un po’ di tempo per fare silenzio fuori e dentro di noi.

Perché solo così possiamo interrogarci e darci delle risposte, riappropriandoci del tempo che oggi è messo al margine e divorato dallo spazio www. La grande rete del mondo, lo spazio virtuale, il mondo della finzione.

Ma noi non siamo questo, e ce lo insegnano i classici greci e latini che ci fanno appunto dono del tempo. Un tempo da riscoprire, da considerare gelosamente, da recuperare con lo studio del passato, da vivere giorno dopo giorno come un dono prezioso. E’ un tempo che fugge, che è inarrestabile e ci corrode.

Perché alla fine della vita che ci è concessa c’è l’incubo che tormenta ogni uomo: la morte. Forse è proprio questo il motivo per cui temiamo di stare in silenzio, in disparte con noi stessi, di fare spazio alla riflessione, alla calma, alla possibilità di metterci in contatto con l’Eterno o l’Infinito.

Aveva ragione Sant’Agostino quando affermava: “Loquaces, muti sunt”. Parlano, ma sono muti. E’ quello che ci sta accadendo oggi. Tutti devono dire la loro, con ogni mezzo e ad ogni costo: in TV, sui giornali, sui social, dove si leggono amenità incredibili e offese gratuite, dove le opinioni personali più strampalate diventano verità sacrosante.

Stare zitti, smettere di litigare e di urlare, è pericoloso perché ci costringerebbe a pensare, a guardarci dentro, a giudicare noi stessi più che gli altri, a scoprirci deboli, fragili o anche vuoti. E il vuoto spaventa ci fa inorridire.

L’horror vacui già noto ai nostri antenati, sia pure filosofi, fisici, artisti e poeti era l’orrore per l’inimmaginabile altra dimensione che ogni vuoto apre inevitabilmente, e che nella nostra condizione di uomini ci mostra la morte.

La morte come vuoto appunto, assenza della vita, dimensione diversa e inconoscibile che ha generato la credenza, religiosa e non, della vita oltre la vita. Il vuoto come non essere nasce con Aristotele che supera però l’horror sostenendo che “La natura rifugge il vuoto”, senza il quale non ci sarebbe né la natura né la fisica, e non si spiegherebbe il movimento fondamentale dell’universo: il movimento locale.

Senza il vuoto come si muoverebbe un corpo? In quale direzione? Non si potrebbe distinguere l’alto dal basso, la destra dalla sinistra, che costituiscono le dimensioni dell’universo.

Ma è un altro “vuoto” che ci spaventa e col quale si sono confrontati poeti come Leopardi che ha tentato di “definire” l’Infinito come un’apertura senza condizioni e senza limiti, fino al verso finale della poesia che chiude con l’indimenticabile “E il naufragar m’è dolce in questo mare”.

Lo stare da solo, in contemplazione di un paesaggio delimitato da una siepe, lo porta a scoprire il brivido dell’intuizione di un infinito spaziale e temporale, tanto che lo sprofondare in quel mare non lo spaventa, ma lo rasserena. È un vuoto doloroso e lancinante invece quello che il poeta Montale identifica nei suoi testi poetici con il “male di vivere”.

È quel vuoto costituito in parte dalla tendenza naturale dell’uomo a isolarsi, in parte dal suo bisogno altrettanto naturale di vivere in società. È quella stessa solitudine che Ungaretti ha intravisto in un giorno d’autunno su un albero quasi spoglio, in una delle sue poesie più famose “Soldati” che recita : “Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie”.

A indicare la fragilità, l’incertezza della condizione umana, della vita che è fragile e sempre in bilico, come appunto quella delle foglie. Eppure non è rassegnazione la sua, è ricerca di Infinito, ricerca di Dio come dimostra questo testo e molti altri: “Chiuso fra cose mortali / (Anche il cielo stellato finirà) / perché bramo Dio?” (Dannazione, in: Vita d’un uomo. Tutte le poesie).

Vuoto dunque che evoca una domanda, una richiesta che lo colmi, e in qualche altro scrittore diventa speranza. Come nel caso della poetessa americana Emily Dickinson che arriva per questa strada alla fede, una fede che nasce dal negativo, perché solo l’esperienza del dolore permette la conoscenza della gioia; il bene della pace scaturisce dalla crudeltà delle guerre e ritroviamo la vita quando sembra sfuggirci, o mancarci.

Quindi è assurdo definire il vuoto come qualcosa di negativo in assoluto, come mancanza di vita. Se riusciamo solo a connetterci con la nostra intimità profonda, con la radice stessa del nostro “esistere”, scopriremo, forse, che questo vuoto è lo spazio e il tempo in cui Dio mi si fa presente, quel Dio che continua ad amarci e che ci consente di ritrovare e incontrare in Lui noi stessi e i nostri simili.

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