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Quando sono debole, allora sono forte

QUARESIMA 2021 – LECTIO DIVINA

con il Vescovo Pietro
“Vide e ne ebbe compassione” (Lc 10,33)

Continuiamo sotto la guida di Padre Pietro il nostro cammino quaresimale all’interno della parabola del “Buon Samaritano”, riprendendola esattamente dal punto in cui l’avevamo lasciata martedì scorso, e cioè da un nodo fondamentale e sconcertante di questo racconto, un nodo che mette in evidenza quanto Gesù conoscesse a fondo l’uomo nelle sue debolezze e nei suoi comportamenti tipici: due persone di rilievo, un sacerdote e un levita, passano davanti all’uomo malmenato e sofferente che giaceva sul ciglio della strada, ma non si fermano. Due uomini che vivono della parola di Dio, non si fermano a prestare soccorso. Essi – ci ha detto il Vescovo – non potevano, poiché erano impediti dalla legge che non consentiva a chi stava per entrare al Tempio di contaminarsi.

Questo era un dato di fatto incontrovertibile, una legge che Gesù conosceva bene, della quale egli però intende presentarci il “lato b”, il rovescio della medaglia: «La legge si limita a dirti ciò che deve essere fatto e ciò che non deve essere fatto, ti mostra ciò che deve essere, ma non come arrivarci». Applicare la legge alla lettera non significa operare bene, perché su questa strada ci si espone al pericolo di trovare nella forza della legge delle giustificazioni alle nostre azioni: non posso prestare soccorso, perché ho degli altri obblighi.

Nel suo discorso il Vescovo si sofferma su questo atteggiamento, puntualizzando che è tipico di ognuno di noi trovare mille giustifiche ed appigli per il nostro gire, come è tipico anche provare sempre a scaricare la colpa sugli altri per sminuire il peso delle nostre azioni. Il samaritano invece compie un percorso mentale diverso, non ragiona secondo la legge e non si fa guidare dagli obblighi sociali, non trova scuse o giustifiche agisce seguendo una legge interiore ben diversa, che nel testo viene descritta mediante l’espressione “lo vide e ne ebbe compassione”: Questo uomo della terra di Samaria, non apparteneva ad una casta, era un laico, anzi un irregolare, apparteneva ad una comunità ibrida, che aveva accolto nella propria fede dimensioni spurie e, diversamente dagli altri due, non è solo di passaggio, lui “era in viaggio”, aveva una meta precisa, ma non lascia che l’indifferenza prevalga.

La sua azione deriva dal “vedere”: egli vede uno spettacolo che non solo mette in moto empaticamente la capacità di prendersi cura dell’altro senza pensare alle conseguenze, ma lo fa indignare. Il verbo “vide” è usato spesso nel Vangelo in riferimento a Gesù che “vede e ha compassione” e spesso si indigna, come nell’episodio nel quale scaccia i mercanti dal tempio. Per comprendere meglio questo atteggiamento Mons. Lagnese ricorre all’aiuto di un altro brano molto famoso, quello della resurrezione di Lazzaro, narrata nel Vangelo di Giovanni (Gv 11,1-44): «Gesù arriva tardi a casa di Lazzaro, lo trova già morto e Marta e Maria lo rimproverano. Egli vede il loro pianto, vede la tomba dell’amico e si commuove, anzi ‘scoppia a piangere’, Gesù non piange per il lutto, c’è di più, c’è uno scoppio di indignazione, l’indignazione di un Dio che ama e vede la sua opera d’arte distrutta, uno spettacolo che non riesce a sopportare. È un Dio geloso, il nostro, che piange la sorte toccata non solo a Lazzaro, ma a tutta l’umanità. Il suo scoppio di pianto è santa indignazione, la stessa che coglie il samaritano e che gli impedisce di proseguire nell’indifferenza!» Ma il discorso è rivolto a noi tutti, Mons. Lagnese chiede a noi tutti se siamo percorsi da quella santa indignazione che salva l’uomo bastonato e derubato dal suo destino o se non siamo piuttosto simile agli altri due personaggi, il levita e il sacerdote, se tiriamo diritti nell’indifferenza o siamo in grado di opporci al dilagare del male con uno scoppio di amore.

Proseguendo nel testo di Luca vediamo come il samaritano ‘si fa vicino’, supera la distanza e determina la salvezza del malcapitato prendendosi materialmente cura di lui, pulendo le sue ferite con olio e vino. Le ferite, segno della sofferenza e della difficoltà nella quale si trova quell’uomo diventano paradossalmente ciò che consente al samaritano di avvicinarsi. Ormai il discorso è chiaro: «Quel samaritano è Gesù e il suo comportamento è il comportamento di Dio di fronte alle nostre difficoltà. Benedette ferite! E benedetta caduta! Benedetta colpa che ci fa sperimentare la dolcezza dell’intervento di Dio, che ci accarezza con l’olio e ci nutre con il vino, segno dei Sacramenti dell’Unzione e della Eucarestia» Poi il samaritano prende l’uomo ferito dopo averlo fasciato e lo mette sulla sua cavalcatura. Molti biblisti concordano nel dire che la cavalcatura in realtà non sia un cavallo, ma che il testo faccia riferimento a “ciò che lui si era acquistato”, cioè, se il samaritano è Gesù, quella cavalcatura è sua stessa umanità, acquistata a caro prezzo. il che vuol dire che il samaritano Gesù prende su se stesso il peso dell’uomo e dei suoi problemi. Infine il Vescovo conclude con una ultima immagine, quella dell’albergo, dove trasporta l’uomo affidandolo alle cure del proprietario. Nel testo la parola tradotta con albergo ha in realtà il significato di “tutti accoglie”, ed è simbolo della Chiesa che in questa espressione trova la ragione della sua esistenza. «Questa deve essere la funzione della Chiesa, accogliere tutti, rimuovere le pietre, lasciare entrare Gesù nei cuori delle persone. Chiediamo al Signore di essere Chiesa che non pone pietre di inciampo, ma le rimuove, Chiesa che accoglie e soccorre. Chiediamo la grazia anche di essere in gradi di benedire il Signore nelle nostre piaghe, perché esse ci consentono di farci avvicinare da lui, perché, come dice san Paolo: “Quando sono debole, allora sono forte”» (2Cor 12,10)

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