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Don Raffaè, dov’è tuo fratello?

Lui è un brigadiere della polizia penitenziaria, nome d’arte Pasquale Cafiero, e rappresenta l’italiano medio, senza infamia e senza lode, anche perché, in caso si adornasse di infamia, questa resterebbe sepolta tra le grate del carcere di Poggioreale, che si sa, non brilla granché, nell’improbabile caso di lodevole impegno, ma è da escludersi nel braccio del 41 bis, uguale.

L’italiano medio dell’epoca in cui fu scritta “don Raffaè” – era il 1990 – non differisce molto da quello del 2021, solo che adesso quella tipologia è tecnologicamente avanzata, le notizie non le legge in assetto papale, sbottonandosi per la difficoltà adiposa nel mantenere la posizione seduta, no, le clicca su internet e commenta come ogni opinionista, virologo, arbitro, scienziato, ecc. farebbe. Oggi quella tipologia di Cafiero incarna di più il re della foresta, il leone, ma da tastiera.

La disamina tra il detenuto comune e quello di eccellenza, perché si sa che anche in carcere ci sono detenuti di serie A, che meritano considerazione e detenuti di serie B che sono da relegare alla categoria di “infamoni, briganti, papponi, cornuti e lacchè”, è d’obbligo per meglio lumeggiare il contesto storico sociale nel quale il nostro protagonista si pavoneggia. Abbiamo fauna di varia nomenclatura, gente di delinquenza comune, bassa manovalanza, con i quali è imprudente discorrere o in qualche modo offrire confidenza, nulla a che vedere con certi detenuti istruiti, per esempio “il professore”, stratega di eccellenza per i crimini più efferati, sanguinario criminale dall’attitudine chirurgica di riuscire a non sporcarsi mai le mani. Con lui sì che è un piacere sorseggiare una fumante tazza di caffè che anche in carcere sanno fare, con la ricetta segreta del compagno di cella, gentilmente svelata dalla sua mamma.

Immaginiamo la pena del povero brigadiere, già costretto di suo ad una atavica indolenza, lui e l’apatia, un corpo e un’anima, e immaginiamolo con un carico di responsabilità in un mondo del quale si sente vittima incompresa, se non fosse per un’eccellenza che per sua fortuna e privilegio – giammai per i suoi meriti, ma per la sua infinta bontà (del detenuto, ovviamente) – occupa le celle del carcere, quasi ingiustamente, mentre “‘ca dinto voi state a pagà e fora chiss’atre se stanno a spassà”.

Un criminale di serie A che gli concede la grazia di ascoltarlo, il privilegio di farsi radere la barba e servire il caffè, o la spremuta, o il campari, e al quale chiede, non senza prostrazione, il suo punto di vista rispetto al governo, all’inflazione, all’immunità parlamentare e in generale a come vanno le cose nel paese. E quello risponde, forse, con un cenno del capo, col silenzio austero, chissà. Proprio a lui, costretto dal 56 a indossare una divisa che gli va sempre più stretta, un po’ perché il tempo regala chili di troppo, un po’ perché al magazzino della Penitenziaria, le divise nuove, quando arrivano, le danno solo ai raccomandati o ai figli di papà.

Eppure il caffè, che solo a Napoli sanno fare, è buono anche in carcere.

E meno male che c’è un uomo geniale a cui il Brigadiere può chiedere consiglio, prestiti, raccomandazioni varie, adulandolo per quel cappotto che “al maxi processo eravate ‘o cchiù bello”. Un tempo erano i detenuti ad avere secondi fini nei confronti delle guardie carcerarie, come cambia il mondo, ora è la guardia che spera di trarre un qualche vantaggio dal potere ancora molto in atto e forte, del don Raffaè, potere che potrebbe, se solo lo volesse, andare dalla raccomandazione per far vincere un concorso al fratello, da una quindicina di anni appena disoccupato o in ultima, residuale analisi, alla richiesta di un prestito di quel “vestito gessato marrone così ci è sembrato alla televisione pe’ ‘ste nozze vi prego, Eccellenza mi prestasse pe’ fare presenza”

Non biasimiamolo questo povero brigadiere, servitore di uno stato all’epoca assente, mentre invece, don Raffaè, sì che è presente, eccome. Quando le notizie di cronaca riempiono le testate giornalistiche “Prima pagina venti notizie ventuno ingiustizie e lo Stato che fa, si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità”e “Qui ci sta l’inflazione, la svalutazione e la borsa ce l’ha chi ce l’ha”, resta solo una cosa da fare: offrire un caffè a don Raffaè!, perché lui è uno che dà “conforto e lavoro, Eminenza, vi bacio, vi imploro”.

“Che crema d’Arabia ch’è chisto café”: una vera crema.

La canzone di Fabrizio de Andrè voleva essere una provocazione e una denuncia della situazione dei detenuti in carcere negli anni Ottanta e della totale subordinazione dello Stato al potere e alla volontà di mafia e camorra. L’unica speranza del nostro brigadiere, italiano medio, per elevarsi dalla propria misera condizione era quella di chiedere la grazia al boss Don Raffaè. L’allusione, nemmeno troppo velata, era a Raffaele Cutolo, fondatore della Nuova Camorra Organizzata e lo stesso Cutolo, nel riconoscersi in questo testo, scrisse al cantautore genovese per complimentarsi, esprimendo tutta la sua meraviglia di come De Andrè fosse riuscito a cogliere alcuni aspetti della vita del boss in carcere senza avere a disposizione informazioni dettagliate. De Andrè non rispose sulla sua di meraviglia sul come potesse addirittura avere una corrispondenza un detenuto ristretto nel carcere di massima sicurezza. Il rapporto epistolare terminò ancor prima di iniziare.

Il brano è geniale, non c’è che dire, la tarantella batte il tempo, veloce, allegro, come tutte le cose nella tradizione napoletana, non veloci, no, a tarantella. Il clarinetto conduce il motivo che ricorre più volte e che meglio si presta al fischiettio per suono somigliante. Per tutto il resto “che crema d’Arabia ch’è chisto café”: una vera crema.

Don Raffaè, dalla “inalterata fama criminale” se n’è andato. Mi ha colpito molto il saluto di don Marco Pozza a Donato Bilancia che scontava vari ergastoli nel carcere dove don Marco fa il cappellano. 17 sedie vuote, tante quante le sue vittime, e una bara al centro. Per ogni vittima la domanda: “Donato dov’è tuo fratello/tua sorella?” e il nome e cognome. Così per 17 volte. Probabilmente per Raffaele Cutolo l’elenco sarebbe più lungo, nell’ordine delle migliaia. Troppe sedie vuote.

“Se tutti coloro che noi uccidiamo col pensiero scomparissero, la nostra terra diventerebbe il pianeta delle sedie vuote. Tu, per la storia di quaggiù, resterai Caino: “vita natural durante” ti hanno giurato alla fine del millennio scorso. Le tue vittime, invece, non hanno mai protestato contro di te: Abele fu il primo a scoprire che le vittime non possono nemmeno protestare. Tacciono, meditano, si mettono in fila. Aspettano l’ora esatta.”

“Nessuna giustificazione al male, pietà immensa per le vittime. La mia anima di prete, però, mi dice ch’è morto mentre viaggiava sulla rotta di Dio”. don Marco Pozza

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