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Il mucchio di macerie che in queste settimane di quaresima è stato sistemato nel piazzale antistante l’abbazia di Wilten a Innsbruck (Austria), è stato posto lì proprio per dar fastidio. E per far riflettere.

Se oggi, lungo le nostre strade, vediamo un mucchio di macerie, la cosa ci lascia pressoché indifferenti. O quasi. Siamo abituati a vedere di tutto. Abbiamo fatto il callo, o quasi, anche di fronte ai sacchi maleodoranti della spazzatura che giacciono abbandonati lungo il marciapiedi perché non hanno trovato spazio in cassonetti che hanno perso la speranza di essere vuotati. 

Ma se il mucchio di macerie è davanti all’ingresso della chiesa, allora sì che dà fastidio. 

E il mucchio di macerie che in queste settimane di quaresima è stato sistemato nel piazzale antistante l’abbazia di Wilten a Innsbruck (Austria), è stato posto lì proprio per dar fastidio. E per far riflettere. Per togliere dagli occhi quella patina di torpore che copre, come un velo grigiastro, le tante immagini che vediamo scorrere sui nostri schermi – dal pc al tablet, dalla televisione allo smartphone – annullando la distanza tra virtuale e reale, tra fiction e attualità.

L’artista tirolese Hans Seifert, autore dell’installazione, descrive quel “mucchio di macerie” come un luogo per pensare, un campo di speranza o, ancora, un luogo di consolazione. Parole che paiono un paradosso di fronte a quello che pare piuttosto materiale da discarica. Ma bisogna osservarli più da vicino, quei quattro metri cubi di macerie. In essi Seifert ha riassunto lo stato attuale del mondo, che è tutt’altro che bello.

“Il “mucchio” – spiega l’artista – nasce per attirare l’attenzione e vuole essere un monito e un’esortazione a guardarlo come un simbolo. Non è né una discarica, né un’opera d’arte. È un messaggio forte che ci mostra cosa sta succedendo nel mondo in questo momento e allo stesso tempo dovrebbe darci speranza”.

In mezzo alle macerie, Seifert ha sistemato diverse bambole, a rappresentare i tanti bambini che nel mondo chiedono pace. Un grido disperato il loro, che viene urlato a lettere cubitali anche sulla pagina Fb di Seifert: “Fate pace, nelle zone di guerra, nelle famiglie, nella politica, nella società, tra le religioni”.

“In mezzo a queste macerie si trovano milioni di bambini e gli anni dell’infanzia di chi è riuscito a sopravvivere. Anni di cui uomini e donne sono stati privati e che sono stati sepolti qui”, aggiunge Seifert.

In cima al mucchio di macerie ci sono anche pezzi ricavati dalla demolizione del frontone della collegiata di Wilten, che pare una croce distrutta gettata a terra.

In queste settimane – l’installazione, che è stata pubblicata sulle pagine social dell’abbazia di Wilten e su quelle dello stesso Seifert – l’installazione è cambiata. Sono scomparse diverse bambole. “Troppo duro per alcuni “puristi” confrontarsi con il drammatico messaggio legato ai bambini che oggi si trovano a vivere in zone di guerra – commenta l’artista – ed ecco che allora ciò che veicola quel messaggio viene tolto, perché non sia visto”.

Seifert ha steso anche dei teli bianchi su alcuni punti di quel “mucchio di macerie”. Questo a simboleggiare una mentalità diffusa: le persone preferiscono coprire le cose terribili, invece di guardarle. 

Tra le macerie sono stati sistemati anche degli specchi, così da permettere alle persone di riflettere su se stesse, “ripulire se stesse, prima di condannare gli altri”. 

“I mattoni, poi, sistemati come un “muro del pianto”, potrebbero creare percorsi di collegamento – aggiunge l’artista –, ma potrebbero essere usati anche come proiettili, che spesso vengono sparati con grande precisione e che causano sempre tanto dolore. Spari spesso contro chi pensiamo essere ‘strano’ e per questo ci fa paura”.

Tra le macerie c’è anche una bara, che “non deve essere vista” e per questo è stata nascosta sotto un panno bianco e rosso. “Accanto – spiega Seifert – si può scorgere anche una valigia con azioni, immobili, oro, gioielli, libretti di risparmio, titoli, medaglie, mitra d’oro e corone, che nell’ultimo viaggio devono restare qui, perché si sa, l’ultima camicia non ha tasche”. 

Quando ha avuto l’idea, Seifert sapeva molto bene che avrebbe sollevato un gran polverone. Ma l’intenzione con cui ha realizzato questa installazione era buona. C’è chi, soprattutto sui social, non ha lesinato critiche. A volte anche molto dure. Seifert ha risposto, nei giorni scorsi, postando sul suo profilo Fb un collage fatto accostando una foto del “mucchio di macerie” e una delle tante drammatiche immagini della Striscia di Gaza che – attraverso i media – entrano quotidianamente nelle nostre case. “Buongiorno – scrive Seifert nel post – a proposito, questa non è l’installazione commemorativa sul sagrato dell’abbazia di Wilten. Questa è la realtà della Striscia di Gaza!”.

“Milioni di persone – prosegue l’artista austriaco – sono costrette a vivere sulle macerie provocate dalle bombe, e lo fanno da molto tempo. Donne incinte, bambini, moribondi… e morti sepolti sotto le macerie. E alcuni puristi amanti della pulizia non sono disposti o non sono in grado di sopportare la vista di queste macerie. Impressionante”. 

In tutto questo, però, Seifert crede che da ogni “mucchio di macerie” possa nascere qualcosa di nuovo. È per questo che tra le macerie c’è anche l’edera, considerata la pianta della vita.

“Dopo i disastri in cui qualcosa è stato distrutto, qualcosa di nuovo può rinascere di nuovo. Per questo motivo, il mucchio di macerie rappresenta anche un campo di speranza”.

di Irene Argentiero – Sir

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