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In questa nuova catechesi del mercoledì, il Papa tratta del vizio dell’avarizia: «Proseguiamo le catechesi sui vizi e le virtù e oggi parliamo dell’avarizia, cioè di quella forma di attaccamento al denaro che impedisce all’uomo la generosità. Non è un peccato che riguarda solo le persone che possiedono ingenti patrimoni, ma un vizio trasversale, che spesso non ha nulla a che vedere con il saldo del conto corrente. È una malattia del cuore, non del portafogli. Le analisi che i padri del deserto compirono su questo male misero in luce come l’avarizia potesse impadronirsi anche di monaci i quali, dopo aver rinunciato a enormi eredità, nella solitudine della loro cella si erano attaccati ad oggetti di poco valore: non li prestavano, non li condividevano e men che meno erano disposti a regalarli. Un attaccamento a piccole cose, che toglie la libertà.

Quegli oggetti diventavano per loro una sorta di feticcio da cui era impossibile staccarsi. Una specie di regressione allo stadio dei bambini che stringono il giocattolo ripetendo: “È mio! È mio!”. In questa rivendicazione si annida un rapporto malato con la realtà, che puòsfociare in forme di accaparramento compulsivo o di accumulo patologico. Per guarire da questa malattia i monaci proponevano un metodo drastico, eppure efficacissimo: la meditazione della morte. Per quanto una persona accumuli beni in questo mondo, di una cosa siamo assolutamente certi: che nella bara essi non ci entreranno. I beni non possiamo portarli con noi! Ecco svelata l’insensatezza di questo vizio. Il legame di possesso che costruiamo con le cose è solo apparente, perché non siamo noi i padroni del mondo: questa terra che amiamo, in verità non è nostra, e noi ci muoviamo su di essa come forestieri e pellegrini».

Nel XXVII Cap. delle Ammonizioni San Francesco scrisse: «Dove è povertà con letizia, ivi non è cupidigia né avarizia». Eppure anche il nostro Poverello, amante della perfetta letizia, si fece prendere una volta dall’avarizia, la tentazione fu più forte della carità ma per grazia di Dio, dopo aver pregato in solitudine, nella sua umiltà, ebbe il coraggio di esternare la sua mancanza ai frati, senza nascondersi nell’ipocrisia, riacquistando subito l’ambita virtù. “Mentre faceva la quaresima sul monte della Verna, un giorno, all’ora della refezione, uno dei suoi compagni accese il fuoco nella cella in cui Francesco veniva per mangiare.

Acceso che fu andò nella celletta dove il Santo usava pregare e riposarsi per leggergli il brano di Vangelo assegnato alla Messa di quel giorno. Infatti, Francesco, prima del pasto, voleva sempre ascoltare il Vangelo del giorno, quando non aveva potuto partecipare alla Messa. Quando arrivò per prendere cibo nella cella dov’era stato acceso il fuoco, già le fiamme erano salite al tetto e lo stavano bruciando. Il compagno cercava di spegnere l’incendio, ma da solo non riusciva; Francesco non voleva aiutarlo, anzi prese una pelle con cui si copriva di notte, e si addentrò nella selva. Intanto i frati del luogo, sebbene dimoranti lontano da quella celletta costruita fuori mano, accorgendosi che stava bruciando, accorsero ed estinsero l’incendio. Francesco tornò più tardi per mangiare. Dopo il pasto disse al compagno: «Non voglio più stendere su di me questa pelle, poiché, per colpa della mia avarizia, non ho concesso a fratello Fuoco di divorarla» (FF 1599).

Papa Francesco continua: «Noi, fratelli e sorelle, possiamo essere signori dei beni che possediamo, ma spesso accade il contrario: sono loro alla fine a possederci. Alcuni uomini ricchi non sono più liberi, non hanno più nemmeno il tempo di riposare, devono guardarsi alle spalle perché l’accumulo dei beni esige anche la loro custodia. Sono sempre in ansia perché un patrimonio si costruisce con tanto sudore, ma può sparire in un attimo. Dimenticano la predicazione evangelica, la quale non sostiene che le ricchezze in sé stesse siano un peccato, ma di certo sono una responsabilità. Dio non è povero: è il Signore di tutto, però – scrive san Paolo – «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà».

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