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In questo mese ci sono stati molti eventi diocesani che hanno visto coinvolte varie realtà isolane. In ognuno di essi l’idea del “cammino” o dell’iniziare un percorso, quale che sia, riconduce all’invito di Papa Francesco della Chiesa in uscita. Sempre, comunque, in ogni caso e con perseveranza. Il Giubileo 2025, la cui importanza è riconosciuta anche dalle altre fedi in tutto il mondo, lo ricorda continuamente, e ogni nuovo percorso si affianca inevitabilmente al senso del percorso giubilare.

Gli eventi di cui parliamo si presentano e si sviluppano apparentemente slegati tra loro, tranne che per un impercettibile filo conduttore: l’idea del cammino, un tracciato che ancora non esiste e, se mai esistesse, sembra non avere direzione né origine, quasi fosse un disegno a matita appena sfiorato, in una pianura sconfinata dove lo sguardo si perde senza soluzione di continuità, e il cui paesaggio, nel suo sguardo d’insieme, non sempre si mostra bellissimo. Anzi. Specie quando sembra di aver perso tutto, quando ci si sente smarriti e sembra sfuggire di mano il senso della vita; il paesaggio che si mostra davanti, allora, assume la visione di una landa dai contorni pressoché inesistenti, sia che si pensi a profili fisici, sia che si naufraghi nei torrenti della memoria. Il momento che si vive, la strada che si profila davanti, sembra non andare da nessuna parte, sembra non avvicinarsi in nessuna direzione; il nostro muoversi, ci rendiamo conto che accade in assenza di qualunque progettualità decisionale, sospinto solo da una forza che potremmo chiamare d’inerzia.

Ci ritroviamo a percorre un paesaggio quasi lunare, nessuna direzione, nessuna indicazione, solo un terreno brullo, incolto e inesplorato, come quello delle pieghe dell’anima, come quello dei sogni in bianco e nero, che lasciano l’amaro in bocca al risveglio. Come il mattino dopo di qualunque evento traumatico vissuto e subito. E noi, a Ischia, ne contiamo più di uno.

Eppure, al passaggio di chi decide – per ragioni sconosciute e forse nemmeno senza un vero perché – di inerpicarsi per strade sterrate e mai battute, già si delinea il primo timido solco, impronta dopo impronta. Di lì a poco ci si rende conto, voltandosi svogliatamente indietro, che, di fatto, si inizia a delineare un percorso, un passaggio, per chi verrà dopo, per chi verrà dietro o anche solamente a fianco. Quella traccia corre il rischio di diventare il sentiero per chi deciderà di imbattercisi.

Ogni cammino è inizialmente incerto, torna alla memoria quello dei discepoli di Emmaus, tendenzialmente afflitti, per lo più sfiduciati, forse traditi. Dopo i primi, cauti passi, ci si riscopre affiancati ad altri passi più o meno incerti, più o meno disincantanti, qualcuno cautamente entusiasta, qualcun altro giocosamente spensierato. Man mano il percorso si fa più nutrito, si autoalimenta, di sguardi, di sorrisi accennati, di stanchezze complici e, alle prime idee che camminano su gambe traballanti, se ne aggiungono altre su piedi più o meno risoluti, fino a ritrovarsi su un unico grande solco, dove ognuno occupa un suo spazio, dove ognuno possiede un suo perché, fino a ritrovarsi a dirigersi verso una meta, quale che sia, gradatamente risoluti, moderatamente rinvigoriti, misericordiosamente spediti, con l’ardore di condividere – o solo diffondere – una notizia, una buona notizia, che ha il sapore del “riproviamoci”, o anche solo “Dio ci sorprenderà”. Tanti piccoli ruscelli che, visti singolarmente, sembrano perdersi nelle alture sconfinate, privi di un minimo di portata, ognuno perso nel proprio singolo esistere, solo per bagnare un poco di orticello e terminare la propria corsa. Certi che un po’ più in là si prosciugheranno, per la stagione arida che incombe o per la mancanza di ripidità. Poi, per un bizzarro e inspiegabile segno del destino, o anche solo per loro natura, incontrano, quasi per osmosi, altri rigagnoli di poca importanza, che uniti, confluiscono in piccoli fiumi e diventano, scorrendo e scrosciando, torrenti che, man mano che si avvicinano al mare, acquistano forza, vigore, potenza.

Il tracciato da percorrere si crea, non nasce dal nulla, e la natura, troppo spesso impietosa, ce lo insegna. Ancora oggi, a guardare, la ferita di Casamicciola sembra un sentiero, un macroscopico solco, che impietoso e irriverente, non curante della verde e folta vegetazione intorno, continua a dar triste mostra di sé, come una cicatrice indelebile che malgrado il tempo e le stagioni, resta fedele alla sua origine e imperterrita non ha nessuna intenzione di rinfoltirsi di verde, quasi che si imponga di rimanere testimone e di rimestare nel fango della memoria, antichi dolori e ancestrali terrori.

Può decidere, la memoria, di cambiare la prospettiva e guardare quel canale che, per colori, aridità, solennità, riporta e ricorda anche quello delineato nell’opera di Piero Casentini, svelata a Pompei nel recente raduno delle confraternite: “Maria, Madre della Speranza e delle Confraternite”, opera realizzata per le Confraternite Italiane e commissionata dal coordinamento Confraternite Campane.

Il paesaggio dell’icona sembra spettrale, un fiume di gente è in cammino; non ha un inizio, un punto di partenza, uno start e, se lo ha, sembra perdersi oltre i contorni superiori della cornice; non ha una fine, la direzione è non detta, non ci sono segnali stradali e se la ha, una direzione, anche guardando oltre i contorni inferiori della cornice, difficilmente la si trova.

A ben guardare, vuoi per assonanza, vuoi per sovrapposizione, quel solco che già nasce scavato in profondità, quel canale che, chissà come, ha creato una spaccatura nella terra fertile e che ora sembra una linea di trincea dove le mine della vita sono esplose e dove sembra rimanere poco più di niente, tutto intorno, malgrado tutto diventa, a sua insaputa, un invito al cammino. All’insaputa di tutti e senza il consenso di nessuno, quella ferita diventa feritoia – “camminando s’apre cammino”, il titolo del raduno che si è tenuto ai primi di giugno, in vista del giubileo 2025 – invita a muoversi, a uscire fuori dai propri paradigmi, e nella proposta c’è anche e ancora quella di una Chiesa in uscita. Con i suoi sacerdoti, che in testa al popolo che man mano si unisce e aumenta, camminano per le strade imbattute, proponendo cammini, percorsi, opportunità.

A guardare insieme i due solchi, quello dell’Opera di Casentini e quello dell’Opera della natura, viene un po’ in mente l’idea dell’assonanza di un tunnel, che, per quanto arido e ostile, può sempre riempirsi di diversità, di persone di diversa estrazione, religione, età, natali. E ricostruirsi rigermogliando. Ancora una volta.

Nell’opera si dischiude un sentiero che sembra avere origine da una serie di tornanti che immaginiamo aridi e brulli, sia nell’icona che è monotematica, sia nella natura: senza apparente previsione di nuova vita. E poi c’è un popolo che per quanto afflitto, si incammina, creando nel solco un sentiero nutrito, che acquista colore e spessore e che altri dietro percorreranno, che altri ancora, avanti, hanno percorso.

Parimenti, durante la processione del Corpus Domini, tenutasi in questi giorni, il popolo di Ischia si è unito, strada facendo, al corteo che portava in processione il Santissimo, arrivando a riempire, a fine corsa, un intero piazzale antistante il cimitero. E non è stato né l’inizio né la fine, è stato cammino, fatto di tornanti, di salite e di discese, di percorsi, di strade imbattute fino a qui, per portare il Corpo martoriato di Cristo e annunciare a tutti che esiste la possibilità di ricominciare, a partire dal primo passo, che – come insegna un aforisma – non ti porta dove vuoi, ma ti toglie da dove stai. Ogni anno la processione del Corpus Domini, percorre strade diverse, mai le stesse dell’anno prima, mai uguali all’anno dopo. E come ogni anno anche quest’anno qualcuno vi partecipa in maniera svogliata, disillusa, qualcun altro per abitudine, per devozione pagana o anche solo perché è una cosa bella e, mal che vada, una benedizione male non fa. Molti non ne vogliono proprio sapere, eppure…la gente che compostamente occupa una strada intera, qualche rappresentante delle confraternite isolane, con il loro stendardo, la banda musicale che accompagna i decani della diocesi, le persone che camminano con la fiaccola accesa da uno dei sacerdoti a testimoniare che anche nel buio del calar della sera c’è la possibilità di Vedere, compongono, se pur in maniera apparentemente disincantata,  un percorso che anche volendo non si sarebbe potuto programmare così come è riuscito. Anche quelli che restavano sull’uscio delle proprie case, al passaggio della folla che canta, che prega, che resta in silenzio e guarda in avanti, si sono ritrovati a muovere dei timidi passi, quasi per imitazione, nell’imbarazzo di una decisione non preventivata, quella di partecipare al corteo, senza chiudere la porta, senza aver indossato il vestito più bello, senza essersi cambiati di calzatura.

Anche nel solco della icona, a guardare bene, qualcuno indossa i sandali e qualcun altro è scalzo. Anche quel sentiero lasciato dalla frana, qualcuno lo ha percorso con gli anfibi e qualcun altro a piedi nudi, nel freddo di novembre, nel gelo della notte, nel brivido della morte.

Il raduno delle confraternite non è stata impresa semplice inizialmente, qualcuna disincantata, qualcun altra pigramente riversata su se stessa ma poi, dopo i primi sproni, una settantina di confratelli e consorelle, ognuno con i colori e lo stemma della congrega cui appartiene, ciascuno col proprio vissuto, si sono mossi in cammino verso Pompei, direttore in testa,  dove erano attesi dal messaggio dell’anno Giubilare, dove ad aspettarli v’era l’opera del maestro Piero Casentino, dove altre confraternite provenienti da tutta la Campania si erano date silente convegno. E c’era anche Ischia, l’isola intera, dalla confraternita di Serrara Fontana a quella di Casamicciola Terme passando per quella del Testaccio. Allo stesso modo il coinvolgimento dei partecipanti alla Solennità del Corpus Domini non ha ripercorso il canovaccio degli anni precedenti, e parimenti, l’inizio di un qualunque nuovo progetto che è in corso d’opera nella diocesi ischitana, fa sempre un po’ fatica a manifestarsi e a svilupparsi. Salvo poi, per la caparbietà di qualcuno che lancia la sfida del “lo facciamo?”, per la incoscienza di qualcun altro che poi decide di affiancare e sostenere l’idea iniziale, per l’ entusiasmo contagioso che lentamente sfocia in una sana e divertente follia, ci si ritrova a camminare insieme a persone che nemmeno si conoscono tra loro, a condividere sguardi di fatica, di speranza, di comprensione, senza aver mai sentito il “via” e forse, senza aver mai nemmeno deciso di fare un primo passo, poi un secondo passo, poi il cammino.

Alla fine della ferita di Casamicciola, c’è il mare, le strade, i negozi, la gente. La ripartenza. Alla fine del raduno straordinario delle confraternite c’è la proposta di accogliere l’icona che ha iniziato il suo di cammino, per le confraternite d’Italia. Anche la diocesi di Ischia ha chiesto e ottenuto il suo passaggio e il suo breve stazionamento sull’isola. Alla fine del cammino del Corpus Domini c’è il sagrato, il silenzio, l’Adorazione. Tutto sembra stasi, il chiaro scuro della notte in contrasto con i fari artificiali che illuminano lo spiazzale, sembra non consentire una messa a fuoco favorevole. Cristo è morto e non sembra esserci un “poi”.

Siamo stanchi, sfiduciati, annichiliti da una vita che ci ha spezzato la schiena, negli ultimi anni abbiamo subito, più che affrontato, sfide e catastrofi che anche spalmate in un paio di decenni avrebbero messo a dura prova chiunque: a Ischia ce le siamo trovate addosso in un pugno di anni contati su una mano sola. Ci siamo fermati, in attesa di una ricostruzione, poi in attesa di un vaccino, poi in attesa che recuperassero i nostri morti e poi in attesa della prossima calamità. E ci siamo abituati alla nostra stessa stanchezza, al non camminare, al non muoverci di un solo centimetro dalle nostre convinzioni, arroccati sul nostro dolore in attesa di un palliativo che forse una blanda fede potrebbe darci, come un tranquillante o un morbido plaid che alla fine della giornata, una giornata di guerra, lenisce ognuno di noi, preso e compreso dai propri affanni.

Poi abbiamo riscoperto, nostro malgrado, che fare un piccolo, insignificante, svogliato primo passo, ha fatto germogliare in qualcuno il desiderio di un orizzonte, anche se al momento non è visibile a tutti. “Camminando s’apre cammino” canta il poeta Antonio Machado: non è un caso che l’incipit sia stato ripreso per questo nuovo momento, in vista di un Giubileo che ancora non si vede, di una meta che ancora non è palese, eppure, ognuno di noi, a modo suo, per un raduno o per una processione, per un progetto estivo con i ragazzi meno fortunati o per un momento di confronto tra pari, ha iniziato a muoversi. Anche percorrendo strade non visibili agli occhi e non tracciate in nessuna mappa, anche calpestando quei ponti che uniscono le sponde e vengono gettati in un “oltre” non definibile e non delineato, perché “lungo il cammino cresce il vigore”, e “la valle del pianto si trasforma in sorgente” (Salmo 84).

Il coraggio di mettersi in cammino non esiste, esiste il coraggio di essersi messi in cammino e il cammino si fa camminando. Anche quando non lo decidiamo.

Cristo è morto?

Sì, in quanto uomo è morto. Resta il fatto che Quel che resta di Lui, spacca l’obiettivo, straborda dai contorni di un semplice scatto e contagia. Pur volendo attenuare le intensità della foto digitale, carica “virale” o di megapixel, di una certa importanza, magari con meno illuminazione, con minor colore, con una qualunque applicazione che la renda meno sovraesposta, alla fine, questa Fine, resta esattamente così com’è. Una deflagrazione che sconquassa le inutili pretese di resistenza messe in campo da chicchessia e a qualunque titolo. Azzera la prospettiva, annienta le rivendicazioni, annulla le aspettative. Ed è Cammino, che s’apre camminando, perché questa Fine alla fine è solo un Fine.

Caminante, son tus huellas
el camino y nada más;
Caminante, no hay camino,
se hace camino al andar.
Al andar se hace el camino,
y al volver la vista atrás
se ve la senda que nunca
se ha de volver a pisar.
Caminante no hay camino
sino estelas en la mar.

Antonio Machado

Viaggiatore, sono le tue orme
il cammino e niente più;
Viaggiatore, non c’è cammino,
si fa il cammino camminando.
Camminando si fa il cammino,
e volgendo lo sguardo indietro
si vede il sentiero che mai
dovrai tornare a calpestare.
Viaggiatore non c’è cammino
solo scie nel mare.

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