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Mysterium fidei – seconda parte

Quarta predica del Card. Cantalamessa

Nella S. Messa ci sono anche la Liturgia della Parola e la Comunione. Noi abbiamo a disposizione alcuni mezzi che in passato non esistevano, per valorizzare la Liturgia della Parola e fare anche di essa l’occasione per una esperienza del sacro. L’attuale liturgia è ricchissima di Parola di Dio, disposta sapientemente, secondo l’ordine della storia della salvezza, in un quadro di riti spesso riportati alla linearità e semplicità delle origini. Dobbiamo valorizzare questi mezzi. Niente può fare breccia nel cuore dell’uomo e fargli sentire la trascendente realtà di Dio, meglio che una vivente parola di Dio, proclamata con fede e aderenza alla vita, durante la liturgia. La fede – dice san Paolo – nasce dall’ascolto della parola di Cristo: Fides ex auditu (Rm 10,17).

Tante parole di Gesù, magari ascoltate poco prima nel Vangelo del giorno, al momento della consacrazione tornano a risuonare nel cuore, come pronunciate di nuovo dal loro autore vivo e realmente presente sull’altare. Io ricorderò sempre il giorno che, dopo aver commentato nel Vangelo la parola di Gesù: “Ecco, ora qui c’è più di Giona; ora qui c’è più di Salomone” (cf. Mt 12,41-42), rialzandomi dalla genuflessione dopo la consacrazione, mi venne da esclamare dentro di me, convinto e pieno di stupore: “Ecco, ora qui c’è più di Salomone!”.

Anche la lettura dall’Antico Testamento, dal confronto con il brano evangelico, sprigiona significati nuovi e illuminanti. Nel passaggio dalla figura alla realtà, la mente – diceva sant’Agostino – si accende come “una torcia in movimento”. Come ai due discepoli di Emmaus, Gesù continua a spiegarci “quello che in tutte le Scritture si riferisce a lui” (cf. Lc 24,27).

E poi, dicevo, la Comunione. Come può la liturgia fare, anche di questo momento, l’occasione per una esperienza del sacro, non solo a livello individuale, ma anche comunitario? Direi, con il silenzio. Esistono due specie di silenzio: un silenzio che possiamo chiamare ascetico e un silenzio mistico. Un silenzio con il quale la creatura cerca di elevarsi fino a Dio e un silenzio provocato da Dio che si fa vicino alla creatura. Il silenzio che segue la Comunione è un silenzio mistico, come quello che si osserva nelle teofanie dell’Antico Testamento. Dopo la comunione dovremmo ripetere a noi stessi la parola del profeta Sofonia (1,7): “Silenzio alla presenza del Signore Dio!” Non dovrebbe mancare mai qualche momento, anche se breve, di assoluto silenzio dopo la Comunione.

La tradizione cattolica ha sentito il bisogno di prolungare e dare più spazio a questo momento di personale contatto con il Cristo eucaristico e ha sviluppato nei secoli, soprattutto a partire dal sec. XIII, il culto dell’Eucaristia fuori della Messa. Esso non è un culto a parte, staccato e indipendente dal sacramento; è un continuare a “fare memoria” di Cristo: dei suoi misteri e delle sue parole, un modo di “ricevere” Gesù sempre più in profondità nella nostra vita. Un modo di interiorizzare il mistero ricevuto. L’adorazione eucaristica è il segno più chiaro che l’umiltà e il nascondimento di Cristo nell’Eucaristia non ci fanno dimenticare che siamo in presenza del “Santissimo”, di colui che, con il Padre e lo Spirito Santo, ha creato il cielo e la terra.

Dove essa viene praticata – da parrocchie, individui e comunità – i suoi frutti sono visibili, anche come momento di evangelizzazione. Una chiesa piena di fedeli in perfetto silenzio, durante un’ora di adorazione davanti al Santissimo esposto, farebbe dire a chi entrasse, per caso, in quel momento: “Qui c’è Dio!”.

Ricordo il commento di un non-cattolico, al termine di un’ora di adorazione eucaristica silenziosa, in una grande chiesa parrocchiale degli Stati Uniti, gremita di fedeli: “Adesso capisco –disse a un amico – cosa intendete voi cattolici quando parlate di “presenza reale”!

Se c’è un motivo per cui io rimpiango il latino, è che con la sua scomparsa stanno scomparendo dall’uso alcuni canti nati per questi momenti e che sono serviti a generazioni di credenti di tutte le lingue per esprimere la loro calda devozione al Gesù dell’Eucaristia: l’Adoro te devote, l’Ave verum, il Panis angelicus. Essi sopravvivono ormai quasi solo per la musica che artisti celebri hanno scritto su quei testi.

Noi “ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio” (1Cor 4,1) e, in modi diversi, ogni fedele impegnato nel culto della Chiesa, potremmo sentirci schiacciati e impotenti davanti a un compito così sublime. Ne avremmo tutte le ragioni. Come aiutare gli uomini di oggi a fare, nella liturgia, una esperienza del sacro e del soprannaturale, noi che sperimentiamo in noi stessi tutta la pesantezza della carne e la sua refrattarietà allo spirito? Anche qui la risposta è sempre la stessa: “Avrete forza dallo Spirito Santo!” Egli, che è definito “l’anima della Chiesa”, è anche l’anima della sua liturgia, la luce e la forza dei riti.

È un dono che la riforma liturgica del Vaticano II abbia messo nel cuore della Messa l’epiclesi, cioè l’invocazione dello Spirito Santo: prima sul pane e sul vino e poi sull’intero corpo mistico della Chiesa. Io ho un grande rispetto per la veneranda preghiera eucaristica del Canone Romano e amo utilizzarla ancora, qualche volta, essendo quella con cui fui ordinato sacerdote. Non posso, però, non notare con rammarico la totale assenza in essa dello Spirito Santo. Al posto dell’attuale epiclesi consacratoria sul pane e sul vino, troviamo, in esso, la formula generica: “Santifica, o Dio, questa offerta con la potenza della tua benedizione…”.

È stata, anche questa, una triste conseguenza della polemica tra Oriente e Occidente. Essa ha spinto, in passato, noi Latini a mettere tra parentesi il ruolo dello Spirito Santo per attribuire tutta l’efficacia alle parole dell’istituzione e ha spinto i Greci a mettere tra parentesi le parole dell’istituzione per attribuire tutta l’efficacia all’azione dello Spirito Santo. Come se il mistero si compisse per una specie di reazione chimica di cui si può determinare l’istante preciso in cui avviene.

C‘è tuttavia una perla che il Canone Romano ha tramandato di generazione in generazione e che la riforma liturgica ha giustamente conservato e inserito in tutte le nuove preghiere eucaristiche: appunto la dossologia finale: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli”. Questa formula esprime una verità fondamentale che san Basilio ha formulato nel primo trattato scritto sullo Spirito Santo. Sul piano dell’essere, o dell’uscita delle creature da Dio, scrive, tutto parte dal Padre, passa per il Figlio e giunge a noi nello Spirito; nell’ordine della conoscenza, o del ritorno delle creature a Dio, tutto comincia con lo Spirito Santo, passa per il Figlio Gesù Cristo e ritorna al Padre. Essendo la liturgia il momento per eccellenza del ritorno delle creature a Dio, tutto in essa deve partire e prendere slancio dallo Spirito Santo. Il messale antico conteneva tutta una serie di preghiere che il sacerdote doveva recitare in preparazione alla Messa. Oggi potremmo preparaci alla celebrazione con una breve, ma intensa preghiera allo Spirito Santo perché rinnovi in noi l’unzione sacerdotale e metta nel nostro cuore lo stesso impulso che mise nel cuore di Cristo di offrirsi al Padre in sacrificio di soave odore. L’Epistola agli Ebrei dice che Gesù, “mosso da Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio” (Ebr 9,14). Preghiamo affinché quello che è avvenuto nel Capo possa avvenire anche in noi, membra del suo corpo.


Leggi la prima parte:

Mysterium fidei

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