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In ottant’anni di vita, oltre 200 milioni di copie vendute, 253 traduzioni, film, a cominciare dal 1974, serie a puntate -più di cinquanta- nel 1978, edizioni a non finire, citazioni, e ora sulle scene teatrali del Belpaese, a iniziare dal Teatro Nuovo di Salsomaggiore dal 28 gennaio, poi, la prima decade di febbraio, al “tempio” romano, il Sistina, e, dopo, Bologna, Torino, Firenze e Milano, diretto da Stefano Genovese e con musiche attuali, modernamente “storiche”, come “La cura” di Battiato o “Space oddity” di Bowie. L’ennesima prova di quanto Il Piccolo Principe, scritto e disegnato dallo scrittore-aviatore Antoine de Saint-Exupéry abbia colpito la fantasia di tanti, anche se ogni tanto gli iper-colti hanno storto la bocca per decretare, seccati, che ci sono frasi scontate, ripetute fino alla nausea, banalità misticheggianti. Come se un discorso o una parola perdessero di validità -e verità- perché ripetuti o antichi: l’aristocrazia spesso invade campi politici apparentemente e sedicenti contrari.

Considerato erroneamente, all’inizio, come racconto per ragazzi, Il Piccolo Principe segue il destino delle opere che vanno oltre il target ipotizzato e arrivano dove uno non si aspetterebbe, praticamente dovunque. Perché nascondono dentro, e spesso inconsapevolmente, significati alimentati dalle radici comuni, dal senso della vita, dalla ricerca interiore e fisica: qualcuno ha scritto che se non fosse scomparso durante un volo nel mare della Provenza nel 1944, l’antico donnaiolo e avventuriero del cielo avrebbe scelto di finire i suoi giorni nel silenzio di un monastero, nella preghiera e nella ricerca di Dio. E nel tentativo di dare un senso al dolore.

Il dolore c’è e si avverte, in questo racconto che ha fatto il giro del mondo, come il suo autore, perché si sente fortemente la presenza della nostalgia, nel senso etimologico di dolore-del-ritorno: non solo l’aviatore perso nel deserto e che capisce di non avere più un punto di riferimento, ma anche il giovane amico che sente il morso del desiderio del ritorno alla rosa primigenia, quella che Goethe aveva chiamato la pianta originaria. E non è un caso che il racconto inizi con il ricordo di un libro sulle “foreste primordiali”. Si potrebbe benissimo, parlare per tutti e due, pilota e Principe, di desiderio di ritorno a ciò che un tempo inenarrabile -a livello umano- è stato nostro ed è stato poi perduto. Il Giardino originario, forse.

Alcune traduzioni in Italia (una edita da Ancora, con introduzione e postfazione di Enzo Romeo) hanno sottolineato affinità tra passi biblici e pagine del Piccolo principe, altre la necessità dell’accettazione della fine di ogni cosa e della certezza che quella fine sia solo nel qui e nell’ora. Altri ancora hanno creduto di ravvisare, in una sorta di intuizione pre-logica, la consapevolezza del proprio destino di “ritorno”.
Comunque stiano le cose, quel piccolo amico nel deserto ha accompagnato momenti della vita di molti, credenti e no, viaggiatori e sedentari, idealisti e realisti, attraverso le generazioni e le ideologie, a dimostrazione che nella vita nulla è sicuro, catalogabile, confezionabile con un timbro.

Vita e morte, amicizia e dolore dell’addio, incontri e separazioni, e soprattutto senso della vita, hanno trovato un altro classico che supera lo spazio-tempo.

Fonte: Marco Testi – Sir

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