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La bambolina di nome Speranza

Vista da giù, sembra una pennellata forte, intensa, di quelle con cui l’artista pazzo ed incompreso schiaffeggia la sua opera per non tornarci più. Un giorno forse ne riconosceremo il valore e la portata, oggi ci appare come un pessimo scarabocchio.

Vista da su sembra il “via” di una di quelle montagne russe spaventose dove non vedi cosa c’è dietro la curva che scende a precipizio ma sai che c’è un “giù”, un profondo giù e, che tu lo voglia o meno, vi ci dovrai arrivare, a occhi chiusi o aperti, in apnea o urlando, ma dovrai necessariamente arrivarci perché una volta partiti non si torna indietro.

Vista dal satellite sembra solo una lingua di un verde disboscato, con i colori che si mescolano all’etereo della foschia e non distingui case, persone, cose, confini e realtà.

Quelli che l’hanno avuta come coltre improvvisa, violenta, non hanno nemmeno avuto il tempo di vederla, l’hanno solo sentita e subita.

Quelli che l’hanno attraversata dopo hanno macinato fango, detriti, paure e agghiaccianti verità, nude, come può essere la realtà quando si presenta in tutta la sua autenticità. Impietosa.

Il silenzio, intonato con una tromba, che rievoca la solitudine e l’inquietudine di un militare, fa diradare il vocio sommesso di amici, parenti e astanti. Nel cortile antistante la Chiesa, quel brusio, in maniera spontanea, si dissolve in silenzio assoluto, palpabile, implodente. E tutto intorno, dilaga lo struggimento, lo smarrimento, l’incredulità: surreali, dignitosi, impietosi. Attraversando il piazzale antistante il santuario di Santa Restituta, la bara di legno, portata a spalla dagli amici intimi, con l’ultima delle dodici vittime che la frana a Casamicciola ha mietuto, ha trovato riparo, dalla pioggia e dagli sguardi armati di teleobiettivo, in una delle macchine superstiti dell’agenzia funebre.

Lo scudo umano schierato spontaneamente a far da barriera tra i giornalisti, al di là della transenna, e l’ultimo, intimo, commiato tra la vittima e i suoi cari; cari tutti, comprese le forze presenti in quei giorni, ora, con le divise pulite e gli anfibi che per quanto tirati a lucido, tradiscono le ore trascorse senza soluzione di continuità nel fango, nel freddo, nella disperata ricerca dei superstiti, che non troveranno mai, se non per restituirne le spoglie per il riconoscimento.

“Fate presto a tornare perché senza di voi mi manca l’aria”, consegnerà una sorella sui social. Non torneranno più.

Anche l’indulgenza del vigile preposto al controllo per l’unica strada – chiusa al traffico perché ancora in pericolo – che taglia l’isola in due trova conforto in un sacerdote che viene accompagnato in Chiesa e che, aggrappato al rosario, incassa nelle spalle il disagio del privilegio concesso del quale mai avrebbe voluto beneficiare.” Benedice il vigile, che china il capo, sporgendosi dal finestrino e torna nel suo pudore, nel dolore di tutti, nel silenzio di una preghiera, una sola, “misericordia”.

Il sindaco in penombra, avvolto nella sciarpa, porta sul volto tutte le ferite in un’unica maschera di dolore per un’isola dilaniata mortalmente, tradita dalla sua stessa terra.

Poco importano i confini e il territorio di competenza, quale che sia la zona di residenza anagrafica, l’isola intera piange, mentre piove a dirotto, i membri della sua comunità. Un’unica comunità che si stringe intorno alla ferita e ne ripulisce i detriti con pala, a mani nude, unghia spezzate e piedi rotti a sangue per chi non ha avuto il tempo né la prontezza di calzare un paio di stivali. Perché non diventi ancor più purulenta e perché spazzare via quel che ha sporcato è un po’ rimuoverlo, quasi a sperare che non ci sia mai stato.

Di questo brutto film, francamente dei peggiori visti nell’ultimo secolo su quest’isola, ancora sfugge il senso, il cosa c’è dietro, e, per quanto lo si voglia riguardare, da qualunque aspetto lo si osservi, sembra proprio che un senso non lo abbia, da nessuna parte.

Con l’ultimo funerale, si chiude una parentesi di questo lungo periodo complesso di fine d’anno, una parentesi graffa aperta in quel tragico 26 novembre e una tonda chiusa oggi con la degna sepoltura della dodicesima anima. Nel mezzo, le quadre dei conti che non tornano che contengono a loro volta le altre tonde dei vari “ma, però, se…”.

L’audio in una chat di gruppo di famiglia di uno dei volontari che masticando rabbia, lacrime e frustrazione dice di averla finalmente trovata, l’ultima vittima, quella che mancava all’appello e che senza la quale nessuno aveva l’animo o il coraggio di dare inizio alla celebrazione di alcun funerale. Che per quanto distinti e in forma privata non potevano avere inizio se non insieme. Quasi a suggellare un patto silente che li ha visti tutti insieme, quella notte, coperti per un’ultima volta e che voleva onorarli insieme nell’ultimo commiato prima della salita al Cielo. Un cielo che imperterrito continua a piangere e a seminare l’ansia di altri scivolamenti.

Per quanto assurda, incomprensibile, implacabile appaia, questa storia ha bisogno di un senso e per quanto inconcepibile e di difficile individuazione al momento, si potrebbe provare a cercarlo proprio tra le pieghe dei fatti che vorticosamente si sono succeduti, cambiando di meteo e di colore, di luoghi e di circostanze, di albe e di tramonti e di lunghe notti, e scena e costume come solo la vita nella sua improvvisazione sa fare. Senza aver studiato il copione e senza aver mai provato.  

Nei flashback rivissuti a ritroso talvolta si cela quel senso che nell’immediato, era sfuggito.

Nell’abbraccio di un cuore di mamma che stringe al seno il suo piccolo, il posto più sicuro in cui stare, un abbraccio eterno che durerà per sempre. Nella mano pietosa di una mamma infermiera che ricompone l’intimità con un telo della croce rossa, perché non prenda altro freddo, altri sguardi, altre offese e perché continui a cullare in un eterno abbraccio il frutto di un amore che porta il nome del Santo patrono.

Nel the caldo, preparato nei thermos, con lo zucchero che lo renda meno amaro e il limone a fettine, che dia la parvenza di un pugno di vitamina C. Offerto ai volontari, quelli improvvisati, quelli istituzionali e quelli che la volontà sta per venire meno; quasi a voler sciogliere quel gelo che davanti agli occhi si è posato per poi essere deglutito come si fa con un boccone amaro e giù a congelare la mente, il cuore, l’anima.

In quella bambolina, intercettata nel fango e subito raccolta, per non essere lasciata sola, poi lavata, asciugata e dopo un corale appello su facebook consegnata a chi, avendo perso tutto, poteva ancora aggrapparcisi come si fa con il dolore, come si fa con i ricordi, quelli belli dell’infanzia, quelli che, oggi, sembrano in bianco e nero ma che dopo l’accudimento della bambola di pezza, tornano a essere a colori, inizialmente un po’ sbiaditi, poi mano, mano, sempre più vividi.

Nella mano misericordiosa di un presbitero che sporco di fango, di sudore, di lacrime ingoiate e con gli occhi riflessi negli sguardi atterriti di chi sosta nel Pronto soccorso, benedice e affida, nella fede a cui si àncora, le anime dei corpi dopo il riconoscimento.

Nell’abbraccio di chi veglia e mentre pensa di essere rimasto solo su questa terra, scopre intorno a sé altre braccia, altri silenzi accorati, altra comunione.

Nell’estenuante andirivieni dei volontari Caritas che dal nulla si sono presentati e con nulla si sono inerpicati fino in cima per portare generi di conforto, sorrisi e caffè, a colazione, a pranzo e cena. In quel paio di stivali calzati alla meno peggio, che hanno riparato dal fango ma non dalle abrasioni, di un numero troppo grande e che, malgrado ciò, cerotto e via, per un nuovo turno, per un nuovo incarico, senza sosta, se non quella strettamente necessaria per consentirsi un pianto e, poi, ingoiare le lacrime e andare avanti.

Nella dignità di chi ai riflettori ha chiesto e ottenuto funerali composti, silenti, fatti di preghiera e di silenzio, di vicinanza e di rispetto.

Nella solitudine di un sacerdote che arriva in cima alla frana e si raccoglie in preghiera per affidare la popolazione intera a quel Dio di cui oggi non è facile cogliere il senso se non che siamo, ciascuno per la propria parte, poco più di niente, ma che con quel niente possiamo essere di sollievo a qualcun altro che a sua volta mette a disposizione il suo niente per un altro ancora.

Non escluderei che il senso di tutta questa storia, potrebbe anche individuarsi nella ricerca stessa di un senso, nello spasimo che ci costringe ognuno con il suo niente a guardare un po’ più in su, un po’ più oltre le macerie di una vita, perché non muoia mai – per quanto affievolita dalle intemperie di questo inverno – la speranza di una nuova alba, che inevitabilmente, dopo una lunga e buia notte, sorge sempre, a prescindere da noi. Il riconoscerla, e sapere che c’è, non toglie via il dolore, come se Qualcuno potesse allontanare quel calice amaro, ma lo rende più sopportabile. Condiviso ne diminuisce il peso come di un macigno che rotola e srotola tra i ricordi.

Quando la vita ti scompone i calcoli che per una vita hai provato a far quadrare, tra le parentesi tonde che si chiudono via, via, come nelle equazioni algebriche dell’esistenza, e quelle quadre che a volte restano aperte in attesa di una proposizione definitiva, fino a quando la graffa non mette la parola fine, si può sempre andare avanti a far di conto, a ipotizzare, a semplificare, a risolvere.

Il senso della vita resta un mistero e qualche volta è un mistero da vivere, prima ancora che da risolvere. Che questo dolore non vada perso o disperso nelle inutili chiacchiere, dissolto nel tempo che inesorabile passa anche senza il nostro consenso. Che questo sacrificio serva a evitare, come ha fatto impattando nel primo nugolo di case e non scendendo più giù, altre salite al cielo e a renderci tutti, malgrado tutto, un po’ più umani, con tutti i nostri niente che conserviamo in tasca. Che resti lo spirito della vicinanza, della compassione, del darsi una mano l’un l’altro e del guardarsi ancora, per una volta ed un’altra ancora, con più clemenza, con più indulgenza. Come la nonna ha guardato quella bambolina, che è stata chiamata Speranza dalla sua soccorritrice, stringendosela forte al cuore.

Li riconosci subito, quelli che hanno avuto un dolore.
Un dolore vero, grande, qualcosa che segna un prima e un dopo.
Qualcosa che ti ha portato a un centimetro dalla morte ma poi non sei morto.
Qualcosa che un secondo prima eri bambina/o e uno dopo ti sei svegliato già grande.
Qualcosa che, anche se passano gli anni, non se ne va e si mostra ogni tanto nei dettagli,
in certi sguardi, nella grafia, piccolino ma c’è, è lì e parla con te.
Li riconosci subito quelli che hanno avuto un vero dolore e non perché sono più stronzi, non perché hanno la scorza più dura: io non li sopporto quelli che con la scusa del dolore diventano più cattivi.
No, il vero tratto distintivo di chi ha sofferto per davvero è che, in fondo, è gentile.
C’è come un velo di clemenza sopra tutti i gesti.
Chi ha sofferto davvero non infierisce mai, non calpesta, sta attento a tutto, osserva.
Se può evita di ferire e se non può, preferisce ferire sé stesso.

Enrico Galiano

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