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Allontànati per aprirti a te stesso!

Commento al Vangelo Mc 7,31-37

Il vangelo di questa domenica ci dice subito che Gesù si viene a trovare in una delle città della Decapoli. La Decapoli è una zona conquistata dai romani circa 60 anni prima della nascita di Cristo; essi avevano voluto che queste dieci città fossero staccate dal territorio di Israele.

Naturalmente dagli ebrei erano considerate come città pagane, staccate dalla legge; erano tipo spina nel fianco. Normalmente un ebreo non attraversava una città della Decapoli proprio perché erano città impure, piene di pagani, mischiati ad altre divinità. Un po’ come quella dei Samaritani. Gesù invece entra proprio in una di queste città perché lui abita dove c’è proprio bisogno di luce, abita là dove c’è bisogno di portare la parola.

Il rischio che corriamo un po’ tutti è quello che faceva la brava gente di Gerusalemme per cui la fede era inversamente proporzionale alla distanza dalla città santa: più ti allontani dal centro e più c’è il rischio che diventi una pecora smarrita da recuperare. Per Gesù non è così. Gesù non ha paura di camminare nelle strade della Decapoli. E lì gli viene portato un sordomuto. Nel greco sarebbe più corretto dire un sordo-balbuziente.

Sono degli amici a portarlo. Sono degli amici a cui questa persona sta a cuore. Sono degli amici che ci tengono a questo compagno. È impedito nell’ascoltare e fatica nel farsi capire. Che bella questa prima immagine che ci dona la parola: essa parla di relazioni e relazioni belle; sono gli amici, quelli autentici, quelli che fanno passi da gigante per portarti, per non farti sentire solo, per non farti sfiduciare.

È proprio bella l’amicizia e dovremmo pregare il Signore di farci incontrare persone così. Abbiamo bisogno di amici a cui stiamo a cuore e che ci portano a Cristo. Alla fede non si arriva per caso, qualcuno ci ha portato, ci ha condotto. Per chi li ha, vorrei che in questa domenica ringraziassero il Signore per il dono dell’amicizia. Però vorrei anche che ciascuno di noi si ponesse questa domanda: forse qualcuno sta aspettando la nostra amicizia? Spesso passiamo la vita ad aspettare degli amici invece di proporci come tali.

Il vangelo ci parla della malattia di questo uomo. Sapete, spesso e soprattutto nel vangelo di Marco, le persone che Gesù incontra che hanno una malattia, sono quasi simboliche, cioè la loro reale malattia rimanda a uno stato dell’anima, a uno stato interiore. Anche qui questo misterioso personaggio della Decapoli, un pagano, uno che non è ebreo, che viene portato al cospetto di Gesù, è un uomo che non sente e che non riesce a comunicare. Fatica a farsi capire.

Non è forse la condizione in cui siamo in questo momento? A volte abbiamo l’impressione di stare in mezzo a persone che non vogliono ascoltare, non ci si capisce, non ci si vuole ascoltare veramente. Oggi non si ascolta più l’altro, si è sordi, e ciò che è peggio si sceglie di non ascoltare. Ma facciamo anche fatica a farci capire, balbettiamo. La situazione di quest’uomo è proprio di isolamento, di solitudine.

È una solitudine che sperimentiamo anche noi, anche se siamo pieni di social, di smartphone. Apparentemente siamo in connessione con tutti, siamo in grado di comunicare, ma non abbiamo ancora trovato il linguaggio profondo che ci costruisce, una vera amicizia o un vero amore.

Gesù la prima cosa che fa con questa persona è di portarlo lontano dal villaggio, lontano dalla città; lo mette a parte per fare qualcosa con lui, per poterlo aiutare. A volte siamo talmente impregnati dal giudizio degli altri, dal pensiero comune, da quello che pensiamo essere indispensabile per essere accolti dagli altri, che non riusciamo a guarire veramente. Gesù invece lo porta in disparte, sente il bisogno di isolarlo, di metterlo da parte, di staccare, di tagliare i ponti almeno per un momento.

Non è forse quello che ci è consigliato di fare per scoprire quanto vogliamo amare, per scoprire quanto vogliamo essere amati? Per imparare ad amare abbiamo bisogno un po’ di tagliare i ponti, di crearci una bolla che ci aiuta a rientrare in noi stessi: la preghiera, il silenzio, la meditazione, la lettura, una passeggiata per guardarci dentro, per scoprire che abbiamo uno sguardo diverso, per scoprire che abbiamo un’anima. È indispensabile avere dei momenti di silenzio, anche nei nostri incontri e nelle nostre celebrazioni.

Gesù compie dei gesti che abitualmente venivano utilizzati quando si voleva guarire una persona a quel tempo, gesti un po’ misteriosi, al limite del magico: il fango impastato con la saliva perché si credeva che nella saliva ci fosse il principio vitale, il soffio. Il toccare che è avere a che fare con qualcosa di tangibile, è la relazione concreta. Gesù poteva guarirlo con uno sguardo ma non vuole. Utilizza e fa dei gesti tangibili, concreti.

La nostra vita e la nostra fede che si fonda sull’incarnazione ci dice che possiamo fare questo percorso concreto di conoscenza di Gesù anche attraverso dei segni, dei sacramenti (pane e vino, imposizione delle mani): è concreta la nostra fede, è fatta di segni, è fatta di fuoco, acqua, terra. Gesù prende e riempie tutto questo del suo spirito.

Ogni volta che un elemento della terra si incontra con Dio è trasfigurato, si apre a una nuova realtà: “Effatà, apriti!”. È una parola aramaica bellissima. A quante cose dobbiamo aprirci? Alla novità di Dio, a una visione della fede che non è soltanto una buona e santa devozione, ci dobbiamo aprire alla speranza, a una disciplina interiore, all’uso di parole che costruiscono e non demoliscono, a divenire capaci di ascolto circoncidendo l’orecchio.

Spalanca lo sguardo, il cuore, la mente a questo Dio. Il nostro amico guarisce, è pieno di gioia e parla, dice a tutti chi è Gesù. Quando la tua vita si apre è così, Dio non riesci a trattenerlo, non riesci a non dire l’unica cosa che puoi dire: quello che Dio ha fatto per te! Buona domenica!

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