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Cambia il vento ma noi no

CAMBIA IL VENTO MA NOI NO

Caterina La Torella

Noi donne siamo così. Testarde, innamorate, sempre desiderose di tenerezze, di attenzioni e d’amore, a qualsiasi età. E’ quello che ci racconta la canzone di Fiorella Mannoia “Quello che le donne non dicono” che parla appunto delle donne, del loro istinto, della loro capacità di adattarsi, di esserci sempre e comunque, nonostante il dolore, le delusioni, i silenzi . E lo si capisce fin dall’inizio dalle parole:

Ci fanno compagnia certe lettera d’amore
Parole che restano con noi
E non andiamo via
Ma nascondiamo del dolore
Che scivola, lo sentiremo poi

Quella descritta dalla canzone è, in sintesi, la condizione femminile che sembra racchiudere tutta la sofferenza e l’isolamento in cui le donne si trovano perennemente relegate. Adattarsi sempre, soffrire in silenzio, accontentandosi solo delle parole dette o scritte nei momenti di gioia. Ma quanta pazienza, quanto dolore ci costa. Eppure! Siamo sempre lì…

Cambia il vento ma noi no
E se ci confondiamo un po’
È per la voglia di capire chi non riesce più a parlare
Ancora con noi

Ecco il punto cruciale. Il partner che non riesce più a parlare, a comunicare con noi. Perché? Perché una donna che si lamenta magari perché lavora e deve accudire anche la famiglia è una gran rompiscatole, quindi è meglio ignorarla. E non continuo con l’interpretazione della canzone ma mi soffermo sull’aria che tira e su quello che accade puntualmente ogni giorno nella nostra civilissima Italia; qualcuna non ce la fa e viene eliminata brutalmente da chi le aveva promesso amore eterno.

Che cosa scateni una furia così feroce da spingere all’eliminazione fisica dell’altra, si stenta a capire. Frustrazione? Delirio di onnipotenza? Mancanza d’amore soprattutto e di comprensione, di umanità, di senso della misura. Follia, forse. Ma accade anche di finire nelle mani di un uomo-padrone dal quale la moglie è regolarmente criticata, demolita psicologicamente, magari picchiata e perseguitata. Quello che fa più male è accorgersi che la violenza contro queste creature non è mai finita, è atavica, ancestrale, addirittura ritenuta un male necessario per un uomo che si rispetti. Nel Corano, ad esempio, il libro sacro dei Musulmani, nella IV Sura al versetto 34 si legge che una donna disobbediente andrebbe prima ammonita, quindi lasciata sola nel letto e infine “battuta” .

E hanno provato in tanti a tradurre in modo alternativo, ma pare che il termine incriminato, daraba, significhi proprio “battere, picchiare, colpire, punire, frustare, sculacciare, infliggere una punizione esemplare e anche accarezzare e sedurre.” Ma in un contesto di ammonimento e punizione, gli ultimi due termini non sembrano essere per niente in sintonia. Quindi picchiare le donne che si ribellano alla volontà del marito, non solo è ammesso, ma considerato addirittura lecito.

Persino l’imam Ahmad al Tayeb, ha affermato durante una trasmissione televisiva che ha poi scatenato un putiferio, che per l’uomo è giusto “colpire – seppure simbolicamente – le proprie mogli che si siano dimostrate disobbedienti”. Le “bacchettate”da infliggere, sarebbero solo in modalità simbolica , quindi non dovrebbero provocare dolore o mortificazione alla donna colpita. Come se vivere all’ombra di un uomo per tutta la vita, come un oggetto o una proprietà personale, condividendolo con altre tre o quattro mogli, non fosse già di per sé mortificante e frustrante. Culture diverse? Evidentemente sì, ma sempre penalizzanti per il genere femminile.

E che dire del mondo classico? In Grecia, ad esempio, pare che le donne non fossero altro che lo strumento necessario per la riproduzione e fossero né più né meno che proprietà privata, oggetti, se ogni uomo poteva disporre legittimamente non solo della moglie e della concubina, ma anche dell’etera (una sorta di escort) o della prostituta. Illuminanti le parole che Euripide (teatro greco V sec. a. C) fa pronunciare al principe Ippolito nella tragedia omonima su quanto fossero stimate le nostre lontane progenitrici: “Zeus, perché dunque hai messo fra gli uomini un ambiguo malanno, portando le donne alla luce del sole? Se proprio volevi seminare la stirpe dei mortali, non dalle donne dovevi produrla: ma che gli uomini comprassero il seme dei figli, depositando in cambio nei tuoi templi oro o ferro o peso di bronzo, ciascuno secondo il valore del prezzo, e viver senza donne in libere case”.

Tutta la cultura antica è maschilista e tale è rimasta per secoli e nonostante i progressi, le pari opportunità, le quote rosa, molto resta ancora da fare. Anzi, oggi purtroppo, complice la pandemia e il lockdown, le violenze domestiche e i crimini contro le donne sono aumentati in modo esponenziale. E lo testimoniano le chiamate continue ai centri antiviolenza. Ci troviamo da un anno in una situazione che rende difficile chiedere aiuto: una donna si è salvata dal massacro fingendo di ordinare per telefono una pizza, ma chiamando in realtà la polizia. Ma quante non ce l’hanno fatta, troppe! Attualmente però c’è un modo in cui le vittime possono chiedere aiuto all’insaputa del loro aguzzino.

Si tratta di un gesto che è stato inventato e codificato in Canada e che la Canadian Women’s Foundation insieme ad altre associazioni contro la violenza domestica, sta cercando di diffondere in tutto il mondo grazie anche all’hashtag #SignalForHelp. In Italia fra le prime a divulgare l’iniziativa è stata l’attivista Giuditta Pasotto, di gengleonlus.org. che ha realizzato un video in cui parla della proposta di adottare un segnale internazionale per richiedere aiuto in modo discreto, senza destare sospetti. Il segnale consiste nel rivolgere il palmo verso una persona in video chiamata o fuori dalla finestra, per poi piegare il pollice verso l’interno ed infine chiudere le dita rimanenti a pugno. Come un ciao.

E’ un nuovo strumento per chi è in pericolo, ma occorre anche un protocollo per insegnare, alle persone che vogliono aiutare, come farlo in modo da non mettere a rischio la sicurezza di chi ha bisogno di assistenza. Se ci capita di intercettare questo segnale possiamo chiamare subito il centro antiviolenza al 1522 e comunicare quanto meno l’indirizzo della persona in pericolo, per darle una possibilità di trovare la chiave per uscire della gabbia.

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