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L’occhio del fotografo ha dato forma, in due scatti, al tempo sospeso.

 “Un mio Direttore – ricorda il fotografo bolzanino Lorenzo Zambello sulla sua pagina Fb – mi diceva sempre: ‘Tu dammi una bella foto e ti costruirò un bel pezzo che si fermeranno a leggere; se ho un bellissimo pezzo senza una bella foto sarà molto più dura arrivare allo stesso risultato’”.

Nei giorni scorsi, Zambello ha pubblicato su Fb due scatti unici e irripetibili. Questa è la loro storia.

La casa circondariale di Bolzano è un edificio austro-ungarico, costruito alla fine dell’Ottocento nel centro storico, lungo i prati del Talvera, il polmone verde che costeggia l’omonimo torrente che scende dalla val Sarentino. Priva di sale per la socialità e di spazi dedicati a laboratori, dispone di una trentina di celle, due palestre, una biblioteca, due aule e una cappella. Ospita circa un centinaio di detenuti di varie nazionalità, in attesa di giudizio o che devono scontare pene inferiori ai 5 anni.

Che si tratti di una struttura più che obsoleta è sotto gli occhi di tutti. Sono decenni che si sottolinea la necessità e l’urgenza di realizzare un nuovo carcere e sono decenni che, per un motivo o per l’altro, il progetto rimane incastrato in un cassetto o fermo su una scrivania.

Venerdì 17 giugno, in occasione della sua visita nel capoluogo altoatesino, il ministro della giustizia Marta Cartabia, ha fatto un sopralluogo nella struttura penitenziaria di via Dante. Ed è proprio in quell’occasione che Zambello, fotografo del Corriere dell’Alto Adige, ha avuto la possibilità di seguire la delegazione ministeriale, arrivando anche in zone della casa circondariale generalmente off limits per la stampa. Ed è proprio lì che l’occhio del fotografo ha dato forma, in due scatti, al tempo sospeso.

Un alto muro di cinta, sovrastato da una matassa di filo spinato arrugginito dal tempo circonda l’intero edificio. Tra il muro e la struttura carceraria c’è un cortile, delimitato anch’esso da alte mura, che terminano con del filo spinato. In una di queste matasse di spine di ferro è incastrato un pallone. A ben guardarlo, non è appena uscito da un negozio. Di calci ne ha presi tanti nella sua vita. Un tiro troppo audace lo ha incastonato in quella intricata matassa. Troppo alto per essere liberato da quella morsa, troppo intrigato quel gomitolo di spine per riuscire a liberarsi da solo. Resta lì, sospeso, come in un ideale limbo, privato della sua libertà di tornare a correre, da una parte all’altra del cortile, energicamente sospinto da una pedata o accarezzato docilmente per passare veloce tra le gambe che si trova di fronte.

Osserva immobile un piccione che, poco più in là, spicca il volo dal davanzale in pietra della finestra di una delle celle. Sulla scacchiera della spessa grata di ferro che è un tutt’uno col muro, sono appoggiati un paio di stracci. Il tempo e le piogge hanno consumato lentamente la vernice grigia, lasciando così campo libero alla ruggine. Sul davanzale, a meno di una spanna da uno dei piccioni che guarda incuriosito all’interno della cella, un paio di scarpe in tela blu. Sono scostate, una davanti all’altra, quasi a simulare il passo di una persona, un passo che al momento è fermo dietro a quella inferriata.

Due immagini di un tempo sospeso, che richiama alla mente quanto Papa Francesco ha detto lo scorso 19 gennaio, nell’aula Paolo VI, durante l’udienza generale del mercoledì.

“Senza la “rivoluzione della tenerezza” (ci vuole, una rivoluzione della tenerezza!) – ha sottolineato Francesco – rischiamo di rimanere imprigionati in una giustizia che non permette di rialzarsi facilmente e che confonde la redenzione con la punizione. Per questo, oggi voglio ricordare in modo particolare i nostri fratelli e le nostre sorelle che sono in carcere. È giusto che chi ha sbagliato paghi per il proprio errore, ma è altrettanto giusto che chi ha sbagliato possa redimersi dal proprio errore. Non possono esserci condanne senza finestre di speranza. Qualsiasi condanna ha sempre una finestra di speranza. Pensiamo ai nostri fratelli e alle nostre sorelle carcerati, e pensiamo alla tenerezza di Dio per loro e preghiamo per loro, perché trovino in quella finestra di speranza una via di uscita verso una vita migliore”.

Perché per quanto sbagliato possa essere stato il gesto che lo ha portato a rimanere incastrato nel filo spinato, quel vecchio pallone non è nato per essere incastonato in quella matassa arrugginita. Così come quel paio di scarpe, pronte a riprendere un giorno il cammino. A spiccare il volo come quel piccione. Al di là di quella finestra, che, sebbene abbia una spessa grata a dividerla dal mondo esterno, è stata creata per essere una finestra di speranza, chiamata ad aprirsi verso una vita migliore.

Fonte: Irene Argentiero – Sir
Foto di Lorenzo Zambello

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