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Seguire Gesù “a qualunque costo”

La testimonianza del seminarista Pius Tabat, pronunciata il 26 giugno 2025, durante la Veglia di preghiera nella Basilica Vaticana, in occasione del Giubileo dei seminaristi

Mi chiamo Pius Tabat Kanwai, ho ventisei anni e sono un seminarista dell’arcidiocesi di Kaduna, in Nigeria. Grazie ai miei genitori, sono stato battezzato da bambino nella fede della Chiesa e nel 2008, all’età di 9 anni, ho ricevuto la mia Prima Comunione.

Da giovane ministrante, ero molto legato al sacerdote della mia parrocchia. Mi dicevo sempre: “sì, da grande voglio essere così, come lui”. La sua presenza nella mia vita è stata il punto di partenza per il viaggio nella vocazione sacerdotale.

Crescendo, il desiderio di diventare prete era sempre più forte e dopo gli studi secondari, nel 2017, ho fatto subito la richiesta per entrare al seminario maggiore dell’arcidiocesi di Kaduna, ma quell’anno non sono riuscito a superare i test di ingresso. Ero preoccupato, ma non ho mai perso la speranza. L’anno seguente ho indirizzato la richiesta non solo alla mia diocesi, ma anche ad altre due diocesi e alla congregazione dei padri bianchi, conosciuti in Nigeria con la sigla SMA.

Quando sono andato per il colloquio dai padri bianchi a Kagoro, per cinque giorni di seguito, mi sono trovato a vivere in una casa di formazione, con i tempi e le attività di un seminario. Ho amato l’ambiente, la vita di preghiera e di comunità e mi sono convinto che questo era il tipo di vita che volevo vivere. Ma cosa avrei scelto se, allo stesso tempo, mi avessero offerto l’ammissione nella mia diocesi, nelle altre due o tra i religiosi della SMA? Nella preghiera ho capito e ho deciso che la prima risposta ad arrivare sarebbe stata la destinazione voluta da Dio. Così, il sabato di quella stessa settimana sono stato ammesso come seminarista della mia arcidiocesi di origine. Dopo l’anno propedeutico di spiritualità, nel settembre del 2019 ho iniziato lo studio della filosofia.

I miei studi al seminario “Goodshepard” di Kaduna sono stati segnati da un evento tragico e indimenticabile per la mia vita. L’8 gennaio 2020 la nostra comunità seminaristica è stata attaccata dai banditi armati e quattro di noi sono stati rapiti: Io, Amos (anche lui qui presente), Pietro e Michele. Era un mercoledì, alle 23 e faceva molto freddo. I banditi hanno fatto irruzione nella comunità del seminario, ci hanno svegliato, ci hanno bendato gli occhi e ci hanno portato nel bosco, dove abbiamo camminato a piedi nudi per diverse ore. Siamo arrivati al loro accampamento al mattino. Io ero stanco, pieno di freddo e sotto shock, sperando che fosse tutto un brutto sogno dal quale mi sarei presto svegliato. Sentendo la voce di mia madre dall’altra parte del telefono e mia sorella piangere, ho realizzato che era tutto vero e mi sono spaventato.

Siamo rimasti lì per 23 giorni, mangiavamo una sola volta al giorno, bevevamo acqua di fiume, non potevamo lavarci, venivamo frustati ogni giorno con bastoni, torturati e umiliati. A volte eravamo costretti a piangere o a imitare suoni di animali solo per il loro divertimento oppure forzati a cantare i nostri canti cristiani e a ballare, mentre loro deridevano la nostra fede e la nostra Chiesa.
Le lacrime sono diventate la nostra colazione, la paura il nostro pranzo e i lamenti disturbavano il nostro sonno notturno. Abbiamo desiderato morire piuttosto che continuare a vivere quell’inferno. Per farci forza, abbiamo deciso di pregare a turno un Padre Nostro e tre Ave Maria insieme, e darci una parola di incoraggiamento nelle prime ore del mattino. Io ho iniziato per 3 giorni, poi ha proseguito Amos e Michele è stato il successivo, cosa che ha potuto fare solo una volta perché il giorno stesso è stato allontanato da noi e martirizzato.

Abbiamo scoperto che Michele aveva parlato di Gesù e della Chiesa a un fratello musulmano che era stato rapito, insegnando a lui anche il Padre Nostro. Ricordo che pochi giorni prima Michele mi disse: “Con tutto quello che sto passando, non morirò qui senza andare in Paradiso”, come se sapesse che a breve sarebbe stato ucciso. Ci dicevamo che se volevano ucciderci, dovevano spararci alla schiena, per non vedere. Michele fu ucciso con diversi colpi di pistola al petto, il 28 gennaio a mezzogiorno. Amos ed io fummo rilasciati il 31 gennaio. Pietro fu abbandonato in strada una settimana prima; per sua fortuna è sopravvissuto, ma ha dovuto lasciare il seminario per le sue gravi condizioni di salute.

Questo tragico evento, tuttavia, mi ha reso più fermo e convinto che il sacerdozio è ciò a cui sono chiamato, il progetto per cui Dio mi ha ridato la vita, ciò per cui Michele è morto, il motivo per cui devo continuare a proclamare la bontà di Dio con le parole e la vita, a qualunque costo. Dopo la laurea in filosofia ho vissuto un anno di attività pastorale. È stato nel corso di questa esperienza che il mio Arcivescovo di Kaduna mi ha comunicato che ero stato scelto per continuare lo studio della teologia presso il Collegio Urbano di Roma. Sono arrivato qui il 29 giugno dello scorso anno per continuare a crescere spiritualmente, intellettualmente e umanamente, discernendo la mia vocazione verso il sacerdozio, in cammino con tanti compagni provenienti da ogni parte del mondo, che ho cominciato a sentire e chiamare fratelli. Spero che un giorno, qualcuno, da qualche parte, arriverà a riconoscere e ad accogliere Cristo attraverso di me, anche se ciò significa portare la croce, indossare la corona di spine e accettare il martirio.

di Pius Tabat Kanwai, Pontificio Collegio Urbano “de Propaganda Fide”

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