Beppe, 64 anni, scalatore provetto, le Pale di San Martino le conosceva fin da ragazzo. Tutta la vita ad affrontarne la roccia aspra, verticale. Fino a quando un appiglio ha ceduto…
Beppe Tararan, 64 anni, scalatore provetto, istruttore del Cai di Cittadella, le Pale di San Martino le conosceva fin da ragazzo. Tutta la vita ad affrontarne la roccia aspra, verticale, fino all’istante in cui sembra di toccare il cielo con le mani.
Le conosceva come fossero delle sorelle, le Pale, Tararan. E appena suo figlio Alessandro aveva avuto l’età, Beppe aveva iniziato a condurlo con sé in montagna. Una passione non si insegna: si contagia, portandosi dietro un ragazzino che ti segue, fa fatica, capisce infine, nello splendore delle cime, perché suo padre si alza all’alba, appena può, per tornare lassù, dentro al cielo.
Questa estate Alessandro ha compiuto trent’anni, è un istruttore alpino anche lui, e forse suo padre, nel guardarlo, si inorgogliva: «È più forte di me, ora», pensava. E domenica, come tante altre volte, sono partiti all’alba. In tre: Beppe, suo figlio e un amico, per Cima Lastei, naturalmente nelle Pale.
Hanno attaccato la roccia, il padre in testa, poi il figlio, poi l’amico. Non una via facile, quella che avevano scelto. Ma chissà quante volte Beppe l’aveva fatta. Chi da lontano, con un binocolo, avesse osservato i tre, li avrebbe visti salire sicuri, lesti, non un passo incerto: gente di montagna.
Ed erano già alti in parete quando – imprevedibile, assurdo – forse un appiglio ha ceduto sotto a un piede del padre. Il grido, un fragore di sassi dalla parete, l’uomo che perde la presa e precipita nel vuoto, giù, per decine di metri. La fune cui è assicurato ai compagni però si tende e tiene – certo, Beppe era perfettamente imbragato.
Deve essere stato appena un istante. Incredulo, sconvolto, il figlio, che regge su di sé la fune, grida, chiama a gran voce il padre. «Papà», grida, e urla ancora. Risuona nell’eco della montagna la sua voce. Ma il padre non risponde. Inerte, penzola nella vertigine del vuoto.
Nelle mani di Alessandro Tararan quella corda pesa gli oltre 80 chili di un alpino ben equipaggiato, e tira, e lacera dita, polsi, spalla del ragazzo, fino a farli sanguinare. Lui però non può cedere: forse spera che il padre sia svenuto ma vivo, e lotta, si accanisce a tener duro. Forse è il compagno di cordata che lo induce ad assicurare la corda a una roccia, e a mettersi in salvo? Già sono partiti i soccorsi. Ma il tempo, come accade in montagna, è cambiato di colpo, il sole è cancellato dalla nebbia, e in quell’ombra il gelo della sera si annuncia sulle Pale. La nebbia ostacolerà l’elicottero, ci vorranno molte ore per recuperare Beppe: che ancora respira, ma muore prima di tornare a valle.
Il figlio, raggiunto dai soccorritori, le mani e la spalla sanguinanti, ripete solo: «L’ho perso… ». Ha perso suo padre. Avrebbe voluto la forza di un gigante per tirarlo su dall’abisso, e invece la corda, spaccandogli la pelle, gli scivolava via fra le mani.
«L’ho perso… », così dice desolata una donna che abbia perduto il bambino che aspettava. Ma quanto profondamente figlio è, questo ragazzo che ha dovuto arrendersi e niente ha potuto fare per suo padre. Per quel padre che gli aveva contagiato la montagna come una passione, come un innamoramento. Quale padre e quale figlio, sulle Pale di San Martino.
Sento gente giovane dire, e nemmeno raramente: «Avere un figlio? Tanta fatica, e poi vedi di cosa sono capaci di fare, a vent’anni o anche meno?».
Le cronache alimentano quasi ogni giorno questa amarezza, questo dubbio terribile, che la mia generazione non conosceva: «Vedi cosa sono capaci di fare, da grandi?».
Sono capaci però, anche, di essere come questo Alessandro, con quella corda che tirava maledettamente e gli torturava le mani, mentre lui chiamava a gran voce, teso nello sforzo, sperando. Anche di questo è capace, un figlio. Condotto con sé fin da bambino, non lasciato solo: anche di quei lunghi minuti sulle Pale è capace. Occorre, in tempi come questo, ricordarlo, e ricordarcelo l’un l’altro.
di Marina Corradi, Avvenire