Ripercorriamo le vicende del loro martirio in Uganda avvenuto nel 1886
Il martirio di san Carlo Lwanga e dei suoi compagni
“Questi martiri Africani si aggiungono all’albo dei vittoriosi, qual è il Martirologio, una pagina tragica e magnifica, veramente degna di aggiungersi a quelle meravigliose dell’Africa antica, che noi moderni, uomini di poca fede, pensavamo non potessero avere degno seguito mai più”, con queste parole, il 18 ottobre 1964, durante il Concilio Vaticano II, san Paolo VI canonizzava Carlo Lwanga e altri ventuno compagni ( tra cattolici e anglicani), colpiti dalle persecuzioni contro i cristiani avvenute sul finire del 1800 in Uganda, in Africa.
E sarà sempre Paolo VI, recatosi nella cittadina africana nel 1969, a consacrare l’altare maggiore del Santuario di Namugongo, costruito sul luogo del loro martirio. Il santuario nato per ricordare questi martiri presenta una particolarità: la sua forma architettonica ricorda una capanna tradizionale africana e poggia su 22 pilastri, simbolo dei 22 martiri cattolici vittime della persecuzione del re ugandese Mwanga.
Lo stesso re, in un primo momento, si dimostrò aperto ai cosiddetti “Padri Bianchi del cardinale Lavigérie”, ma poi cambiò idea. Il re Mwanga prima vietò ai sudditi di seguire la religione cristiana, poi nel 1885 passò all’aperta persecuzione contro loro.
Una strage, un martirio vero e proprio: a maggio del 1886 si cominciò con alcune decapitazioni, mutilazioni e torture infernali contro sette prigionieri. Il 25 maggio 1886, Carlo Lwanga venne condannato a morte, insieme ad altri compagni. Nella notte seguente, Carlo Lwanga riuscì segretamente a battezzare i catecumeni. Tra questi c’era anche Kizito un ragazzo di 14 anni.
Inoltre, per aumentare disumanamente la sofferenza dei condannati, il re decise di trasferirli dal Palazzo reale di Munyonyo a Namugongo, luogo per le esecuzioni capitali. Fra i due luoghi ci sono circa 50 km: una distanza che diventerà una “Via Crucis” per i prigionieri. Otto giorni di cammino, in cui molti moriranno trafitti da lance, impiccati e persino inchiodati agli alberi.
Poi, la data cruciale: quella del 3 giugno 1886. Qui, giunti alla collina di Namugongo, insieme ad alcuni anglicani furono bruciati vivi in un unico grande rogo. La loro fu una forte testimonianza di martirio: pregarono fino alla fine lodando Dio. Grande commozione suscitarono il quattordicenne Kizito e Carlo Lwanga, il quale gli aveva promesso: “Io ti prenderò per mano, se dobbiamo morire per Gesù, moriremo insieme, mano nella mano”.
Uno altro tra loro, Bruno Ssrerunkuma, dirà, prima di spirare: “Una fonte che ha molte sorgenti non si inaridirà mai. E quando noi non ci saremo più, altri verranno dopo di noi”.
di Antonio Tarallo, ACI Stampa