Commento al Vangelo Gv 13,31-33.34-35
Dopo l’immagine del Buon Pastore, in questa domenica siamo invitati a toccare, a sentire e a rendere presente il Risorto attraverso l’alfabeto dell’amore. Non è semplice, perché purtroppo abbiamo una visione distorta di questa parola, che usiamo praticamente dappertutto. È Gesù che ci insegna l’ABC dell’amore, la sua autenticità e ciò che fa la differenza in coloro che lo vivono davvero.
Il Vangelo ci riporta all’ultima sera di Gesù nel Cenacolo, luogo dove si consuma la parola “amore” insieme alla parola “tradimento”. In quell’occasione, la più tremenda per lui (sedersi a tavola con tutti traditori, non so se mi spiego), dopo che Giuda esce dal Cenacolo di notte, egli inizia uno strano discorso: parla di gloria e, di conseguenza, di un nuovo comandamento.
Giuda lo tradisce e Gesù parla di gloria. Ma che cos’è la gloria di Dio? Purtroppo, siamo abituati a intenderla come qualcosa di grandioso, con effetti speciali, nubi, luci scenografiche. Insomma, tutte cose coreografiche. Il termine gloria, kavod, che in ebraico indica il “peso specifico”, rimanda a una realtà che ha consistenza, valore, e indica una specificità che appartiene alla santità di Dio.
Più volte, nel Vangelo di Giovanni, Gesù usa il termine “gloria”, “glorificazione”, “glorificato” accanto a gesti solenni come quello della lavanda dei piedi. La gloria di Dio, dunque, è l’amore; ciò che possiamo rendere visibile della gloria di Dio è l’amore; ciò che possiamo far percepire della santità di Dio è l’amore.
La gloria/amore di Dio si manifesta nel Cenacolo, perché in quella circostanza Gesù ama l’uomo che lo condurrà al massacro, ama l’uomo che lo venderà per denaro. Dopo aver mostrato la specificità del suo amore, dunque, Gesù pronuncia e consegna il nuovo comandamento: “Che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi”. Ma com’è possibile? Come si può comandare di amare qualcuno? Che razza di comandamento è questo?
Cerchiamo di comprenderlo. Esso non è come: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Quel comandamento, contenuto nell’Antico Testamento, ci chiede di dare agli altri lo stesso amore che proviamo per noi stessi. Ascoltare questo comandamento significa fondere le nostre forze e fare in modo che l’amore sia il prodotto della nostra fatica. Ma qui cambia tutto: Gesù ci chiede di versare nel cuore dell’altro non il nostro amore, ma l’amore che Lui ha riversato nel nostro cuore. L’amore richiesto è il suo non il nostro.
La novità del suo comandamento è tutta qui: amare una persona con l’amore che abbiamo ricevuto da Lui. Questo implica che, prima, ciascuno di noi abbia fatto esperienza di questo amore.
Ognuno, se si guarda dentro, è capace di vedere come sia stato amato da Gesù nonostante la propria imperfezione, proprio come Giuda e i discepoli prima della Pasqua.
Il tempo di Pasqua, dunque, è il tempo per far memoria di questo amore ricevuto e per riversarlo sugli altri. Non il nostro amore, ma il suo. Amare gli altri non è frutto delle nostre forze, ma è semplicemente condividere l’amore che il Signore ha donato a ciascuno di noi. Per capire meglio quello che sto cercando di dire, prendo in prestito l’esempio di un noto commentatore: egli paragona la nostra vita a una grande valle, e l’amore di Gesù a un grido lanciato in questa valle.
La voce che ritorna è semplicemente l’eco di quella che è stata emessa. Ecco come funziona nella nostra vita: dobbiamo solo permettere a Dio di gridare la sua voce dentro di noi.
Nella Chiesa, spesso ci torturiamo inutilmente perché ci sforziamo di amare qualcuno senza aver capito che la prima cosa da fare è lasciarci amare da Lui! Il nostro è solo un amore di risposta, non di iniziativa.
Ognuno di noi diventerà l’amore che ha incontrato. Se non facciamo esperienza dell’amore di Dio, non potremo mai riversare questo amore nella vita dei fratelli. E così resteremo per sempre lontani dalla Pasqua. Noi diventiamo ciò che amiamo. E, purtroppo, siamo anche il frutto di come siamo stati amati. Permettiamo a Dio di amarci e ciò che uscirà da noi sarà soltanto eco di Lui e del suo amore.
Buona domenica!
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Un’eco del suo amore
Commento al Vangelo Gv 13,31-33.34-35
Dopo l’immagine del Buon Pastore, in questa domenica siamo invitati a toccare, a sentire e a rendere presente il Risorto attraverso l’alfabeto dell’amore. Non è semplice, perché purtroppo abbiamo una visione distorta di questa parola, che usiamo praticamente dappertutto. È Gesù che ci insegna l’ABC dell’amore, la sua autenticità e ciò che fa la differenza in coloro che lo vivono davvero.
Il Vangelo ci riporta all’ultima sera di Gesù nel Cenacolo, luogo dove si consuma la parola “amore” insieme alla parola “tradimento”. In quell’occasione, la più tremenda per lui (sedersi a tavola con tutti traditori, non so se mi spiego), dopo che Giuda esce dal Cenacolo di notte, egli inizia uno strano discorso: parla di gloria e, di conseguenza, di un nuovo comandamento.
Giuda lo tradisce e Gesù parla di gloria. Ma che cos’è la gloria di Dio? Purtroppo, siamo abituati a intenderla come qualcosa di grandioso, con effetti speciali, nubi, luci scenografiche. Insomma, tutte cose coreografiche. Il termine gloria, kavod, che in ebraico indica il “peso specifico”, rimanda a una realtà che ha consistenza, valore, e indica una specificità che appartiene alla santità di Dio.
Più volte, nel Vangelo di Giovanni, Gesù usa il termine “gloria”, “glorificazione”, “glorificato” accanto a gesti solenni come quello della lavanda dei piedi. La gloria di Dio, dunque, è l’amore; ciò che possiamo rendere visibile della gloria di Dio è l’amore; ciò che possiamo far percepire della santità di Dio è l’amore.
La gloria/amore di Dio si manifesta nel Cenacolo, perché in quella circostanza Gesù ama l’uomo che lo condurrà al massacro, ama l’uomo che lo venderà per denaro. Dopo aver mostrato la specificità del suo amore, dunque, Gesù pronuncia e consegna il nuovo comandamento: “Che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi”. Ma com’è possibile? Come si può comandare di amare qualcuno? Che razza di comandamento è questo?
Cerchiamo di comprenderlo. Esso non è come: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Quel comandamento, contenuto nell’Antico Testamento, ci chiede di dare agli altri lo stesso amore che proviamo per noi stessi. Ascoltare questo comandamento significa fondere le nostre forze e fare in modo che l’amore sia il prodotto della nostra fatica. Ma qui cambia tutto: Gesù ci chiede di versare nel cuore dell’altro non il nostro amore, ma l’amore che Lui ha riversato nel nostro cuore. L’amore richiesto è il suo non il nostro.
La novità del suo comandamento è tutta qui: amare una persona con l’amore che abbiamo ricevuto da Lui. Questo implica che, prima, ciascuno di noi abbia fatto esperienza di questo amore.
Ognuno, se si guarda dentro, è capace di vedere come sia stato amato da Gesù nonostante la propria imperfezione, proprio come Giuda e i discepoli prima della Pasqua.
Il tempo di Pasqua, dunque, è il tempo per far memoria di questo amore ricevuto e per riversarlo sugli altri. Non il nostro amore, ma il suo. Amare gli altri non è frutto delle nostre forze, ma è semplicemente condividere l’amore che il Signore ha donato a ciascuno di noi. Per capire meglio quello che sto cercando di dire, prendo in prestito l’esempio di un noto commentatore: egli paragona la nostra vita a una grande valle, e l’amore di Gesù a un grido lanciato in questa valle.
La voce che ritorna è semplicemente l’eco di quella che è stata emessa. Ecco come funziona nella nostra vita: dobbiamo solo permettere a Dio di gridare la sua voce dentro di noi.
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Buona domenica!
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Don Cristian Solmonese
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