Commento al Vangelo Gv 10,27-30
Gesù è risorto, è vero, lo sappiamo. Ma abbiamo la possibilità di toccarlo anche noi?
Le prime domeniche di Pasqua sono dedicate a mostrarci quell’esperienza unica e irripetibile vissuta dagli apostoli che hanno mangiato, dormito, ascoltato Gesù dopo la sua risurrezione. L’alfabeto di quella esperienza è stato unico, irripetibile. Noi, che non vediamo ma crediamo, siamo chiamati a imparare un altro alfabeto, un altro modo per sperimentare la realtà dell’annuncio della presenza viva di Gesù. Sono proprio le immagini presentate dai Vangeli in questa seconda parte del tempo pasquale a insegnarci questo nuovo alfabeto.
La prima è quella del Pastore e dell’analogia con le pecore, che illumina il nostro rapporto con Dio. Vorrei sottolineare come l’immagine del pastore nel Vangelo di Giovanni sia molto diversa da quella lucana: il pastore giovanneo è un guerriero, severo, combattente; è il pastore che si fa porta delle pecore. Al tempo di Gesù, i pastori, dovendo passare la notte all’aperto durante la pastorizia, costruivano rifugi per le pecore. Lo facevano innalzando piccoli muretti a secco di forma circolare, alti circa sessanta centimetri. Poiché non potevano fabbricare porte, il pastore stesso si sdraiava nell’apertura del recinto per evitare che le pecore uscissero e, soprattutto, per impedire ai lupi di entrare e rapirle. È lui che ci protegge, è lui che dà la vita per le sue pecore. Siamo difesi da un pastore che ci ama profondamente. Oggi celebriamo questo Pastore tenero ma anche determinato e deciso, autentico, non mieloso, ma forte.
I verbi di questo Vangelo sono l’alfabeto per imparare a riconoscere il Risorto nella nostra vita: ascoltare, conoscere, seguire.
Il primo verbo è ascoltare. Per le pecore, imparare la voce del pastore è vitale, è salvezza. Così è anche per la fede: l’ascolto è il più importante dei cinque sensi, perché la relazione con il Signore si fonda anzitutto sulla ricezione delle sue parole. È l’ascolto che apre all’attrazione e all’incontro.
Siamo ascoltatori della Parola, uditori della voce di Dio. Attraverso la lettura della Scrittura – dove è nascosta la lettera d’amore di Dio per l’uomo – siamo chiamati a entrare in relazione con Lui.
La prima caratteristica del discepolo è proprio quella di passare del tempo con la Parola, nella preghiera, nell’ascolto quotidiano, o almeno domenicale. Ascoltare la sua voce e riconoscerla tra mille voci quotidiane è la prima esigenza per toccare il Risorto. Il vero ascolto, inoltre, implica una reale apertura a ciò che l’altro sta dicendo. E questo non è facile. Spesso lasciamo scivolare via le parole di chi ci parla, senza un vero ascolto. Succede anche con Gesù: siamo logorroici di parole, ma poveri di ascolto, poco disposti ad accogliere le sue parole.
Per Gesù, l’ascolto conduce a un livello più profondo: conoscere. Nel linguaggio biblico, conoscere non significa acquisire informazioni, ma entrare in una relazione intima con qualcuno. È a questa intimità che siamo chiamati. Senza questo passaggio, non potremo mai seguire Gesù davvero. Molte esperienze cristiane sono solo “di passaggio”, non “intime”: passiamo da Dio, lo sfioriamo per i nostri bisogni, ma non entriamo in intimità con Lui. Essere cristiani non significa semplicemente essere d’accordo con quello che dice Gesù, ma sentirsi conosciuti da Lui, entrare nella sua tenda, condividere un pasto, essere unti, splendenti e curati da un olio (Salmo 23).
Forse vale la pena fare memoria di quei momenti in cui abbiamo vissuto esperienze simili. Perché seguire Gesù è solo la conseguenza di questo. Se custodiamo nel cuore il sapore di queste piccole esperienze – in cui abbiamo gustato l’intimità della sua ospitalità –, se riusciamo a mantenerle vive dentro di noi, niente potrà separarci da Lui. Siamo quelle pecore che non andranno perdute in eterno. Questo perché, attraverso la Parola, l’Eterno è entrato in noi.
Nessuno potrà separarci dalla potenza eterna dell’amore del Pastore. Siamo abituati a torturarci inutilmente con ansie e preoccupazioni, diventando pecore che si allontanano dal pastore e riducono la propria vita a una grande fatica. Non dimentichiamolo: siamo nati per ascoltare una Parola che ci fa sentire conosciuti e ci porta in un’intimità che solo l’amore di Dio sa creare – con Lui e tra noi. Papa Leone dalla loggia di San Pietro, nella sua prima apparizione ci ha consegnato queste parole: “Dio ci vuole bene, Dio vi ama tutti, e il male non prevarrà! Siamo tutti nelle mani di Dio”. Ecco: Anche il nostro Pietro ci ricorda l’alfabeto del pastore. Impariamolo! Buona Domenica!
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L’Alfabeto del Pastore
Commento al Vangelo Gv 10,27-30
Gesù è risorto, è vero, lo sappiamo. Ma abbiamo la possibilità di toccarlo anche noi?
Le prime domeniche di Pasqua sono dedicate a mostrarci quell’esperienza unica e irripetibile vissuta dagli apostoli che hanno mangiato, dormito, ascoltato Gesù dopo la sua risurrezione. L’alfabeto di quella esperienza è stato unico, irripetibile. Noi, che non vediamo ma crediamo, siamo chiamati a imparare un altro alfabeto, un altro modo per sperimentare la realtà dell’annuncio della presenza viva di Gesù. Sono proprio le immagini presentate dai Vangeli in questa seconda parte del tempo pasquale a insegnarci questo nuovo alfabeto.
La prima è quella del Pastore e dell’analogia con le pecore, che illumina il nostro rapporto con Dio. Vorrei sottolineare come l’immagine del pastore nel Vangelo di Giovanni sia molto diversa da quella lucana: il pastore giovanneo è un guerriero, severo, combattente; è il pastore che si fa porta delle pecore. Al tempo di Gesù, i pastori, dovendo passare la notte all’aperto durante la pastorizia, costruivano rifugi per le pecore. Lo facevano innalzando piccoli muretti a secco di forma circolare, alti circa sessanta centimetri. Poiché non potevano fabbricare porte, il pastore stesso si sdraiava nell’apertura del recinto per evitare che le pecore uscissero e, soprattutto, per impedire ai lupi di entrare e rapirle. È lui che ci protegge, è lui che dà la vita per le sue pecore. Siamo difesi da un pastore che ci ama profondamente. Oggi celebriamo questo Pastore tenero ma anche determinato e deciso, autentico, non mieloso, ma forte.
I verbi di questo Vangelo sono l’alfabeto per imparare a riconoscere il Risorto nella nostra vita: ascoltare, conoscere, seguire.
Il primo verbo è ascoltare. Per le pecore, imparare la voce del pastore è vitale, è salvezza. Così è anche per la fede: l’ascolto è il più importante dei cinque sensi, perché la relazione con il Signore si fonda anzitutto sulla ricezione delle sue parole. È l’ascolto che apre all’attrazione e all’incontro.
Siamo ascoltatori della Parola, uditori della voce di Dio. Attraverso la lettura della Scrittura – dove è nascosta la lettera d’amore di Dio per l’uomo – siamo chiamati a entrare in relazione con Lui.
La prima caratteristica del discepolo è proprio quella di passare del tempo con la Parola, nella preghiera, nell’ascolto quotidiano, o almeno domenicale. Ascoltare la sua voce e riconoscerla tra mille voci quotidiane è la prima esigenza per toccare il Risorto. Il vero ascolto, inoltre, implica una reale apertura a ciò che l’altro sta dicendo. E questo non è facile. Spesso lasciamo scivolare via le parole di chi ci parla, senza un vero ascolto. Succede anche con Gesù: siamo logorroici di parole, ma poveri di ascolto, poco disposti ad accogliere le sue parole.
Per Gesù, l’ascolto conduce a un livello più profondo: conoscere. Nel linguaggio biblico, conoscere non significa acquisire informazioni, ma entrare in una relazione intima con qualcuno. È a questa intimità che siamo chiamati. Senza questo passaggio, non potremo mai seguire Gesù davvero. Molte esperienze cristiane sono solo “di passaggio”, non “intime”: passiamo da Dio, lo sfioriamo per i nostri bisogni, ma non entriamo in intimità con Lui. Essere cristiani non significa semplicemente essere d’accordo con quello che dice Gesù, ma sentirsi conosciuti da Lui, entrare nella sua tenda, condividere un pasto, essere unti, splendenti e curati da un olio (Salmo 23).
Forse vale la pena fare memoria di quei momenti in cui abbiamo vissuto esperienze simili. Perché seguire Gesù è solo la conseguenza di questo. Se custodiamo nel cuore il sapore di queste piccole esperienze – in cui abbiamo gustato l’intimità della sua ospitalità –, se riusciamo a mantenerle vive dentro di noi, niente potrà separarci da Lui. Siamo quelle pecore che non andranno perdute in eterno. Questo perché, attraverso la Parola, l’Eterno è entrato in noi.
Nessuno potrà separarci dalla potenza eterna dell’amore del Pastore. Siamo abituati a torturarci inutilmente con ansie e preoccupazioni, diventando pecore che si allontanano dal pastore e riducono la propria vita a una grande fatica. Non dimentichiamolo: siamo nati per ascoltare una Parola che ci fa sentire conosciuti e ci porta in un’intimità che solo l’amore di Dio sa creare – con Lui e tra noi. Papa Leone dalla loggia di San Pietro, nella sua prima apparizione ci ha consegnato queste parole: “Dio ci vuole bene, Dio vi ama tutti, e il male non prevarrà! Siamo tutti nelle mani di Dio”. Ecco: Anche il nostro Pietro ci ricorda l’alfabeto del pastore. Impariamolo! Buona Domenica!
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Don Cristian Solmonese
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