Quella foto è. L’evidenza del potere temporale della Chiesa. La conferma che tutto succede solo e sempre ai funerali (talvolta ai matrimoni, ma meno). Che succede solo quello che deve succedere, le diplomazie e i cerimoniali fanno enormi giri inutili. È la prova che la realtà dà sempre tre giri di pista al cinema. Che bastano due sedie, non serve tutto l’ambaradam. Che bastano dieci minuti, anche otto, anche sei. Che l’importante è essere soli a guardarsi in faccia. Che le telecamere cambiano il modo di atteggiarsi, di parlare: sei distratto dalla reputazione. Come diceva quello: il mezzo è il messaggio. Una foto è una foto, non ce n’è per nessuno.
Che il mattino ha l’oro in bocca, svegliarsi presto è faticoso ma conviene. È la dimostrazione Urbi et Orbi che il vestito nell’armadio ce l’aveva, solo che lo usa quando decide lui. Chi ha sbagliato vestito, clamorosamente, questa volta è stato l’altro. (Ma ti pare che di blu? Non ce l’ha un amico, fra i consiglieri?). Quella foto dimostra che un pavimento importante fa tutto, che il giallo illumina. Che gli spazi ampi aiutano. Per la prospettiva, e in generale per la convivenza. Che avere un appuntamento in comune – essere entrambi ospiti di qualcun altro, non uno dell’altro – solleva dalla responsabilità del buon esito, facilita la disinvoltura. Essere a casa d’altri è meglio che essere a casa propria, se c’è da parlare senza impegno.
Che una chiesa è una chiesa. Sei pur sempre a San Pietro, bisogna che parli a bassa voce. Che la Chiesa con la maiuscola è il luogo supremo della politica: da sempre, per sempre. Per chi ci crede: che Papa Francesco ci ha messo del suo. Certo è per lui se erano lì. Che Giorgia Meloni, invece, non c’era. Nemmeno nell’altro fotogramma, quello con Macron con la mano sulla spalla di Zelensky, Starmer che sorride e Trump che dice qualcosa a Macron. Non c’era, son cose che dispiacciono, pazienza. Che l’immaginazione è più potente di qualsiasi audio. Cosa si siano detti non lo sappiamo, però lo speriamo.
di Concita De Gregorio, Repubblica