Riflessioni a margine del recente incontro del Papa con chi vive e si sostenta grazie al mare
La mattina di sabato 23 novembre2024 Papa Francesco ha incontrato per la prima volta i pescatori italiani. Dai territori sono arrivate più di quattromila persone, tra pescatori e familiari, associazioni di categoria e sindacati. Un incontro speciale che si colloca in un momento difficile. Il settore della pesca in Italia, infatti, non gode di buona salute. E una delle ragioni è dovuta al ricambio intergenerazionale che è in sofferenza da anni: le flotte di pescherecci nelle maggiori marinerie italiane sono in calo, mentre nel frattempo si sono attrezzati e sono cresciuti porti che si affacciano sull’altra sponda del Mediterraneo. C’è una tradizione importante e feconda che rischia di perdersi, se non si inverte la rotta. E si sa che le trasformazioni lavorative hanno sempre alla base dei cambiamenti culturali e che, secondo l’insegnamento di Papa Francesco, «ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie» (LS 219).
I dati non ci tranquillizzano. In Italia il 70% dei pescatori ha ereditato il mestiere dalla famiglia, ma il 40% dei giovani che hanno il padre o il nonno nel comparto, decide di fare altro. Lo rivela un’indagine di Confcooperative Fedagripesca. Negli ultimi 10 anni la pesca ha conosciuto l’abbandono del 16% dei lavoratori imbarcati, che si sono assottigliati a 22mila (a tempo pieno sono 19mila, gli altri stagionali) rispetto ai 30mila dello scorso decennio. Coloro che operano a terra sono quasi 100mila lavoratori. Il mancato ricambio generazionale ha portato a rendere sempre più complicata la formazione degli equipaggi.
Le ragioni di una situazione così drammatica sono molteplici. Ci sono state normative che hanno favorito la rottamazione dei pescherecci e che quindi hanno interrotto l’interesse generazionale: dedicarsi alla pesca non era più conveniente. Ci sono motivazioni culturali, per cui il mestiere è sempre più complicato dal punto di vista delle restrizioni e inoltre risulta essere un lavoro pesante per orari e intensità di lavoro. Se anche le leggi non lo annoverano (ancora) tra i lavori usuranti, di fatto lo è: comporta difficili condizioni lavorative in mare. Di fatto il mestiere del pescatore soffre di scarsa valorizzazione culturale e non conosce grandi prospettive di crescita professionale. Ci sono poi anche ragioni economiche che hanno assottigliato i guadagni, tanto da far pensare che il gioco non vale la candela, e i costi stessi del carburante e dell’attività rappresentano per un armatore investimenti importanti. Non tutti sono in grado di affrontarli. Ci sono, infine, motivazioni formative, per cui il lavoro esige sempre di più competenza tecnologica, legale e digitale: tutti elementi che nel passato non erano richiesti. In positivo, un ricambio generazionale potrebbe portare maggiore innovazione tecnologica nel settore, una maggiore attenzione all’ambiente. Su quest’ultimo punto non possiamo tacere che le specie marine nel Mediterraneo si stanno trasformando: l’aumento della temperatura porta alla presenza di specie aliene e alla sostituzione di altre. Cambiamenti che impattano sul prodotto ittico.
Insomma, la crisi della pesca ha radici profonde e si protrae da molto tempo. Nella prima metà degli anni Novanta del Novecento si sono presentati i primi segnali di una crisi duratura, innanzi tutto come ridimensionamento di una eccessiva espansione. C’è stato un calo sia del numero di pescherecci sia del numero di addetti. Tale processo è stato sostenuto dall’Europa, come una sorta di riequilibrio per evitare uno sfruttamento sproporzionato delle risorse ittiche. All’inizio del nuovo millennio (2002-2012) la crisi è continuata con la costante riduzione del numero di imbarcazioni, nonostante il consumo di pesce sia cresciuto. Ci ha portato all’aumento delle importazioni e alla riduzione dello sforzo di pesca, con un cambio di prospettiva a livello economico. Più recentemente, infine, si è aperta una nuova fase (2014-2024) con un rallentamento della crisi, senza però riuscire a fermarla. Sono diminuiti i pescherecci, così come è calato il numero degli imbarcati, mentre si è consolidato l’aumento di prodotto ittico importato. Ci si chiede se questa stabilizzazione sia l’anticamera di una lenta agonia o se è la frenata verso un nuovo sviluppo del comparto. Quale delle due? Gli ultimi trent’anni si contraddistinguono per un atteggiamento rottamatorio: impressiona non poco la dismissione di un comparto fondamentale per un Paese come l’Italia che è sdraiato in mezzo al mare ed è accarezzato dalle acque.
Un apostolato d’ambiente
L’Apostolato del Mare si caratterizza per essere una pastorale d’ambiente. Si mostra efficace nella capacità di abitare i luoghi, nell’accompagnare le persone e nell’offrire risposte di senso dove vivono e operano i marittimi. La crisi del ricambio generazionale della pesca conosce risvolti umani e spirituali che richiedono un impegno specifico. Dal punto di vista sociologico occorre riconoscere con Hartmut Rosa quali sono stati i cambiamenti nel mondo del lavoro nel corso del tempo. Se nell’età premoderna e nella prima modernità vi era un passaggio di consegne di padre in figlio, di generazione in generazione, nella modernità questo meccanismo si è interrotto: i figli erano liberi di scegliere la propria professione secondo le proprie inclinazioni e questa scelta valeva per tutta la vita. Nella tarda modernità, infine, «l’occupazione non dura quasi mai quanto l’intera vita professionale dell’individuo: i lavori cambiano a ritmo più alto delle generazioni». La pesca ha sofferto anche questi passaggi culturali che hanno segnato il mondo del lavoro.
Perciò, sono almeno due le attenzioni pastorali da coltivare. La prima è squisitamente culturale. Occorre lavorare sulla «cattiva fama» della pesca, ritenuta un lavoro pesante e insostenibile dal punto di vista sia economico che ecologico. Per ridare dignità al lavoro del pescatore, occorre in primo luogo dare la parola ai pescatori stessi, appassionati per il proprio lavoro e innamorati del mare. I porti trasudano valori, umanità, competenze professionali che non possiamo buttare a mare. L’identità di alcune città è legata alla pesca, se si pensa a certi quartieri residenziali, costruiti da pescatori stessi. La vocazione marinara di una città non si improvvisa nella storia, ma è frutto di anni di investimenti e di costruzione culturale. Non si può accettare che il mestiere del pescatore sia presentato come un lavoro degradante, svilente e umiliante. Questo pessimismo culturale è il piano inclinato verso la chiusura. Molti finiscono per domandarsi: «Ma chi me lo fa fare?». L’Apostolato del Mare deve poter contribuire alla rivoluzione culturale che ridia orgoglio ai pescatori, che li renda protagonisti di un riscatto sociale e li valorizzi per la loro vocazione. Non aiuta di certo la colpevolizzazione circa le esclusive responsabilità dei pescatori al degrado del mare, visti come predatori della risorsa ittica. La scelta di Papa Francesco, sia nell’enciclica Laudato si’, sia in alcune udienze particolari, di invitare i pescatori a sentirsi le sentinelle e i custodi del mare, responsabili del futuro dell’ambiente marino, va certamente in questa direzione. Grazie al mare pulito è possibile salvaguardare una pesca di qualità, a garanzia della salute delle persone. Il cibo buono dev’essere anche giusto.
Il secondo impegno pastorale è offrire strumenti relazionali adeguati. Gli equipaggi sono sempre più un luogo interculturale e interreligioso. Su un peschereccio ci possono essere cattolici, mussulmani e ortodossi, non credenti…con le loro tradizioni religiose, le abitudini di preghiera e le normative alimentari. Si crea un ambiente dove è necessario l’incontro e l’ascolto dell’altro per poter convivere: una convivialità delle differenze. Diventa perciò importante la conoscenza reciproca, la stima per l’altro, il rispetto delle tradizioni culturali, liturgiche e sociali. Sono mondi che, nella condivisione della pesca in mare, imparano a conoscersi ed apprezzarsi. Le imbarcazioni diventano così non solo luoghi di lavoro, ma anche laboratori di dialogo interreligioso. Si superano pregiudizi. Nascono amicizie spirituali.
«Farli innamorare»
Nel mare può avvenire la trasformazione più difficile: da persone che pescano a persone appassionate di pesca. È la migliore condizione perché un lavoro possa essere trasmesso di padre in figlio. La pesca necessita di un ricambio generazionale che può arrivare solo dentro alla passione per il proprio lavoro. Allora si realizza una nuova consapevolezza di sé, come è accaduto duemila anni fa sulle rive del lago di Tiberiade, quando Gesù di Nazareth ha chiamato Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, invitandoli a lasciare la barca e il padre per diventare pescatori di uomini. In realtà, i vangeli stessi ci raccontano che non hanno mai abbandonato quel lavoro e che la nostalgia del mare li ha abitati. Ce lo ricorda Gv 21,1-14, con Pietro che dice ad altri sei discepoli: «Io vado a pescare». Il lavoro del pescatore è rimasto nel dna della tradizione cristiana, perché un lavoro non è mai ripetizione, non è mai uguale a se stesso. Il ricambio generazionale è anche un cambio di prospettiva, un ridisegnare il lavoro stesso. Lo si eredita e lo si fa crescere grazie alle esigenze dell’uomo e alle trasformazioni tecnologiche. Ogni ricambio avviene all’interno di un’esperienza di innamoramento per il mare e per il proprio lavoro. Così scrive la poetessa Mariangela Gualtieri: «Pescherecci tu dici. Guarda bene./Navi da guerra sono. Hanno radar/argani uncini. Reti infinite di tonnellate.(…)/ Potessi dire andate ad adorare./Dite grazie al mare. Non rapinate./Raccogliete ma non rapinate./Fate bene. Siete uomini del mare./Potessi dire è delicato, non lo rovinate-/Sarei patetica non credi?/Io questo chiedo, farli sanguinare/con le parole. Farli innamorare». Possiamo chiedere ai navigati del mestiere di saper «far innamorare» per un lavoro che diventa dono, gratitudine al Signore, relazione profonda con il mare, riconoscenza alla comunità che si chiama equipaggio. La gente di mare è esperta di orizzonti e di futuro.
di Bruno Bignami – Osservatore Romano