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«Testimoniamo un altro modo di battersi»

Dal 1991 Daoud Nasser porta avanti la trafila legale per conservare la sua tenuta Gli hanno tagliato acqua e luce e vietato di costruire. «Così abbiamo scavato nella roccia»

«Quando vivi circostanze difficili hai tre alternative: chiuderti nel dolore, infuriarti e distruggere tutto o costruire qualcosa». Daoud Nassar ha scelto di costruire, anche materialmente. E l’ha fatto in uno dei luoghi dove è più difficile farlo: l’area C della Cisgiordania dove, in cima alla collina di Nahalit, vicino a Betlemme, è situata la fattoria di cui è proprietario legale da oltre cent’anni. Nonostante abbia gli atti di acquisto risalenti all’Impero ottomano e attualizzati durante il mandato britannico, dal 1991, Daoud è impegnato in una sfibrante battaglia legale per evitare lo sgombero da parte dell’amministrazione militare israeliana che lo accusa di occupare abusivamente l’appezzamento . «Siamo qui da quattro generazioni: gli ultimi cristiani rimasti nell’altopiano a sud-ovest di Betlemme», dice il palestinese che ha mostrato gli attestati di proprietà al tribunale locale, alla Corte suprema, poi di nuovo a quella locale. La sentenza definitiva, attesa il 17 settembre scorso, è slittata al 18 dicembre. E potrebbe essere rimandata ancora.

Nel frattempo, le autorità di Tel Aviv gli impediscono di allacciarsi alla rete elettrica, a quella idrica e di praticare qualunque nuova aggiunta sul suolo della tenuta. «E noi abbiamo rispettato l’ordine. “Sul” suolo non c’è nulla di nuovo. Abbiamo scavato sotto…», racconta Daoud mentre indica la grande roccia scura al cui interno è stata ricavata una sala riunioni. Di fronte ci sono le grotte trasformate in rimessa e pollaio. A fornire energia sono i pannelli solari, mentre un grande serbatoio a cielo aperto raccoglie l’acqua piovana poi riciclata per garantire l’approvvigionamento idrico indispensabile per la casa e per i campi. «L’unica struttura illegale è la tettoia di legno e frasche. Prima o poi ce la butteranno giù. Ma noi la ricostruiremo». Quando impiega il plurale non si riferisce solo alla sua famiglia. Nella fattoria Daoud non ha creato solo edificazioni materiali bensì una comunità che si estende ben oltre il labirinto di confini della Terra Santa.

Una piccola rappresentanza si scambia chiacchiere e tazze di tè nelle panche di legno del patio: il francese Brice, gli olandesi Irene e Hank, lo statunitense John, durante una pausa dal lavoro nel campo. «Prima della guerra avevamo molti più visitatori. In media venivano in 13mila all’anno. Da gennaio, non ne sono arrivati più di cinquanta. Ma è già un dono che arrivino». Non sorprende, dunque, che Daoud abbia voluto ribattezzare la tenuta “Tent of nations”, la tenda delle nazioni. «L’ho scelto perché è riferimento biblico: la tenda di Abramo e quella che i discepoli vogliono costruire nel momento della trasfigurazione di Gesù. E soprattutto perché è la metafora della resistenza creativa e nonviolenta che noi ci sforziamo di portare avanti. Non ci consentono di costruire un edificio? Bene, allora facciamo una tenda. L’importante è non arrendersi. Troppo a lungo noi palestinesi ci siamo sentiti in un vicolo cieco: o rassegnarsi all’oppressione o ribellarci con la forza. Non sono le uniche strade. È possibile – e doveroso – difendere la giustizia ma senza armi, utilizzando l’immaginazione. Certo è difficile. È necessario essere disposti a non vedere i risultati della battaglia. Senza la mia fede non ce la farei. “Tent of nations” non è solo un terreno agricolo. Vuole essere segno e testimonianza, in una terra dilaniata dall’odio, di un’altra forma di combattere per i propri diritti, di conservare la speranza in un futuro di dignità senza cadere nella trappola della vendetta».

Per questo, Daoud ha aperto le porte della fattoria agli 11mila abitanti del villaggio di Nahalit. In particolare, i bambini, con cui organizza laboratori artistici e momenti in cui si piantano insieme degli alberi. Ci sono, poi, i volontari dall’estero. «Hanno cominciato a venire dall’inizio degli anni Duemila quando gli attacchi dei coloni sono diventati continui». Tent of nations è circondata da cinque insediamenti popolati da 90mila israeliani. Il principale, Beitar Illit, è proprio dietro la tenuta. «Ora le faccio vedere il sesto». Di fronte alla fattoria, la scorsa primavera è spuntata una roulotte. «È il primo passo per un nuovo insediamento. Dal 7 ottobre, la pressione dell’esercito israeliano e dei coloni è aumentata a dismisura: ci hanno chiuso la strada per raggiungere Gerusalemme e Betlemme, hanno cercato di aprirne un’altra in mezzo alla tenuta e, infine, è arrivato il caravan. La fattoria è in una posizione strategica e vogliono portarcela via. Ma noi continuiamo a costruire».

di Lucia Capuzzi – Avvenire
Foto dalla pagina Facebook “Tent of Nations Italia – Qeshet” 

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