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Riscopriamo con il linguaggio la bellezza del “cum”

Intervista a Ivano Dionigi

Il latinista invita a una purificazione delle parole. «Oggi sono social, che è il contrario di sociale. Viviamo nell’isolamento, soprattutto i giovani, che vanno affascinati»

«Dobbiamo riscoprire le parole con il “cum”. Comunicare, che per noi vuol dire altro, viene da cum-munus, è “mettere in comune i doni”, cum-testari, contestare, non è andare in giro con i cartelli a fare casino, ma è “testimoniare insieme”, cum-petere, competere, non è usare i muscoli, ma “andare tutti insieme nella stessa direzione”. Abbiamo stuprato il linguaggio». Ivano Dionigi, docente emerito di Letteratura latina dell’Università di Bologna, di cui è stato rettore, in questi anni ha rivolto la sua passione educativa soprattutto ai giovani. Che sono, come emerso dal dibattito innescato su queste pagine da Pierangelo Sequeri e Roberto Righetto, gli attori principali a cui guardare per un nuovo rapporto tra cattolici e cultura contemporanea. «Quando vado in giro, parlo delle parole che sono la cosa più concreta del mondo», dice il filologo classico. Parole che oggi sui social sono degradate a fake news, contro le quali la scuola deve fornire «non una cassetta, ma un’intera officina di attrezzi».

Per citare Isaia, come lei ha fatto di recente incontrando 500 laureati magistrali a Bergamo, «a che punto è la notte»? Quali sono le principali sfide che la cultura odierna pone al pensiero credente?
«Assistiamo all’eclissi delle grandi visioni, socialista, liberale e cattolica, per cui manca un orizzonte. Queste visioni camminavano sulle gambe di istituzioni come famiglia, Chiesa e partiti, che – quando ci sono – oggi sono fragili e in affanno. Il risultato è l’immanenza nel presente, siamo all’ossessione dell’uno e del medesimo. Non c’è la memoria del passato, né una prospettiva futura. E c’è un triplice deficit di alterità».

In cosa consiste?

«Il primo deficit è quello della comunità. Come ha scritto il filosofo Roberto Esposito siamo tutti preoccupati dell’immunità e poco della comunità. Parole anche etimologicamente opposte. Cum-munus vuol dire condividere con gli altri la propria identità, il proprio dono, avere un destino comune. In questo il Covid ha creato una cesura. C’è una grande solitudine, anche se oggi le parole sono social: con la caduta di un solo fonema si dice il contrario di “sociale”. Le parole “confinamento” e “distanziamento sociale” sono gas nervino. Si pensi ai danni dello smart working e della “didattica a distanza”. La solitudine, come diceva il cardinal Martini, ha un valore positivo, ma qui siamo all’isolamento, che è una pessima cosa. Secondo deficit è quello che accennavo: manca la dimensione del tempo, che riconduce alla memoria dei trapassati e al progetto dei nascituri. Va recuperata la memoria. Per cui bisogna capire il dentro e la profondità delle cose, intus-legere».

Il terzo deficit?

«Riguarda l’oltre, sia esso laico-razionale o cristiano-spirituale. Bisognerebbe semplicemente annunciare il Vangelo, la Risurrezione. Da quando non sono più all’Università ho incontrato circa 20mila giovani in 100 scuole superiori. Non ce n’è uno che sia contento della propria vita. La crisi oggi è economica perché è politica, è politica perché è culturale, è culturale perché è spirituale».

Questa è la diagnosi, quale la cura?

«La traversata di questo deserto spirituale è lunga. Va riscoperto il valore dei piccoli gruppi, quelli che Achille Ardigò chiamava i “nuclei vitali”. Va ricostruito un lessico fondamentale della comunità, della politica, a partire dal basso, perché la salvezza non è calata dall’alto. Serve poi che gli intellettuali, che stanno sparendo, facciano il loro dovere. A differenza dei politici, che badano al consenso, e ai capitani d’industria, che badano ai bilanci, non possono fare i notai: dicano come deve andare il mondo. I giovani li muovi con la testimonianza». Uno dei compiti culturali urgenti.

Come intercettare le loro domande di senso?

«Vanno resi protagonisti. Non basta dare dei messaggi sul senso della vita. Con il cardinale Ravasi e lo psichiatra Lingiardi abbiamo realizzato, insieme a 800 studenti di tutta l’Emilia-Romagna, degli incontri sul tema dell’identità, a partire dalla domanda di Agostino Tu quis es?, “Tu chi sei?”. Ravasi è rimasto colpito dal fatto che, durante gli interventi, non ha squillato un cellulare e nessun ragazzo ne aveva uno in mano. Erano sedotti. Bisogna parlare con loro e di loro. Cercare insieme una strada, fidarsi di loro e responsabilizzarli. Una volta, nella pausa di un incontro di orientamento alla scelta del liceo, una ragazzina di 13 anni mi ha avvicinato per farmi vedere sul cellulare la “faccia” del suo fidanzatino. Allora ho lasciato il mio discorso e ho parlato della differenza tra “faccia” e “volto”. Ho detto che oggi viviamo in un’epoca di facce, di maschere. Mentre “volto” viene dal latino volvere, cambiare. Cos’è che ci dice il dolore o la gioia, la bellezza o la bruttezza, la faccia o il volto? Successivamente, e per me è stata un’agnizione, ho trovato che l’aveva già detto Isidoro di Siviglia.

Uno che è vissuto tra VI e VII secolo. Ma il fenomeno attuale che pone molti interrogativi etici, come ha di recente sottolineato papa Francesco, è l’ “intelligenza artificiale”. Come non farsene fagocitare?
«Ho davanti a me un libro di Reid Hoffman (cofondatore di LinkedIn, ndr), scritto a quattro mani con ChatGpt4. È il mondo verso cui andiamo, guai a essere luddisti. Abbiamo fatto cittadino l’uomo agricolo, poi quello industriale, quello elettronico adesso dobbiamo fare cittadino l’uomo dell’intelligenza artificiale. Sia benvenuta, se produce più libertà e più giustizia. La mia paura è che creeremo macchine che ridurranno l’umanità a un gregge. Dobbiamo perciò tenere il pallino della tecnologia, che è parola bellissima, composta da tèchne, l’ars latina, e logos. Ma sarà tecnologia o tecnocrazia? A prevalere sarà Prometeo o il fratello Epimeteo, quello che ha aperto il vaso di Pandora. Uno è pro, prima, l’altro epì, dopo, quello che ritarda. Infine, chi stabilirà il bonum comune?».

Lei ha intitolato un suo fortunato saggio Benedetta parola. C’è una dimensione religiosa della parola, comune tra cattolici e laici?

«A ispirarmi è stata la Lettera di Giacomo. L’uomo è parola, diceva Aristotele. Don Milani nella lettera a Bernabei del 1956 dice che chiama uomo chi è padrone della parola. È il punto d’incontro di tutti. Anni fa in un colloquio con l’arcivescovo Lorefice ho detto che abbiamo bisogno di una “Pentecoste laica”. Con il rispetto dobbiamo capire la parola di ciascuno. Tucidide dice di aver capito lo scoppio della guerra del Peloponneso, perché “avevano cambiato il significato delle parole”. Oggi se ci fosse la parola della politica non ci sarebbe la guerra».

di Gianni Santamaria – Avvenire

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