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La necessità di un piano europeo

Risulta sempre difficile parlare di immigrazione quando il discorso si sposta dai numeri e dalle statistiche alle persone fisiche.

Si rischia – sempre e comunque – di urtare la sensibilità di qualcuno, benché anche chi si dichiara aperto a una accoglienza indiscriminata non ospiti migranti in proprio. Altra difficoltà nasce dal tipo di comunicazione che, se periodica e non quotidiana, rischia di essere sopravanzata dall’evolversi degli eventi. Premessa indispensabile: il 10 giugno 2022, 19 Stati UE e 4 Paesi associati hanno firmato un documento politico che prevede il “meccanismo volontario di solidarietà”, per aiutare le nazioni che devono gestire il maggior numero di sbarchi.

Si può scegliere se accettare sul proprio territorio i richiedenti asilo, oppure se aiutare economicamente i Paesi di primo approdo. La Francia ha annunciato di voler sospendere l’accordo dopo la crisi del novembre 2022 innescata dal caso Ocean Viking. Ora che le polemiche dei mesi scorsi sembrano essersi attenuate, si possono fare alcune considerazioni. Prima riflessione: abbiamo assistito ad un ribaltamento di ruoli tra i “sovranisti” di governo e gli “europeisti” d’opposizione. Infatti i primi hanno con forza richiesto che sia l’intera UE a farsi carico dell’epocale esodo dei migranti, mentre i secondi – richiamando l’obbligo morale dell’accoglienza e sostenendo le assurde posizioni della Francia (che, sul tema, non può dare lezioni a nessuno, visto e considerato come tratta i migranti a Ventimiglia e a Calais) – hanno finito con l’affermare che l’Italia possa da sola farsi carico dell’intera questione, non resistendo alla tentazione di attaccare l’attuale Governo e mettendo in secondo piano l’interesse nazionale. Come asserito in precedenza, parlare di un dramma come quello dei migranti non è facile: molti i casi umani, drammatico il contesto di molti dei loro Paesi di provenienza.

È però necessario ragionarci senza cadere nei miti opposti del salvatore degli oppressi o dell’inflessibile difensore delle frontiere e delle identità nazionali. Il flusso è destinato a durare e va affrontato in maniera appropriata. Al primo punto serve una regolamentazione di questo specifico fenomeno. Non a caso, il lavoro delle Ong e delle loro navi non è contemplato dal diritto internazionale marittimo, non redatto per migrazioni di massa (peraltro, in molti casi, illegali) bensì per il comprensibile e giusto obbligo, per le imbarcazioni di passaggio, di salvare chi fa naufragio in mare e di sbarcarlo nel primo porto sicuro raggiungibile. Solitamente, i naufraghi erano persone identificabili che poi facevano ritorno al proprio Paese d’origine.

Qui la situazione è radicalmente diversa: occorre far fronte a un flusso ininterrotto di migranti, che (giustamente, dal loro punto di vista) non hanno alcuna intenzione di ritornare poi in patria, ma cercano di entrare nel Paese di approdo, diretto o mediato dai loro salvatori che sia, nella maggior parte dei casi privi di un titolo giuridico per esservi accolti. Aggiungiamo anche il caso delle navi di soccorso delle Ong non è quello, come avrebbe ipotizzato chi ha scritto le norme internazionali, di navi di passaggio a cui si doveva imporre un dovere di salvataggio, non rientrante di per sé nella loro attività, ma di navi che vanno alla ricerca di naufraghi per salvarli (e spesso anche di potenziali naufragandi).

La suddetta situazione dovrebbe indurre il legislatore a rivedere integralmente il diritto marittimo alla luce di quanto innanzi esposto: le persone in mare vanno salvate, ma poi non serve confinarle in strutture sovraffollate a tempo indeterminato, ma va posto il tema di come farle vivere in maniera dignitosa. Le navi delle Ong salvano e sbarcano, ma poi si lavano le mani del futuro di questa povera gente. Non è compito loro occuparsene, si obietta, ma il favorire di fatto il sogno di un futuro attraente sapendo che non sarà così non ci sembra una grande impresa. Chi scrive è fermamente convinto del fatto che una delle posizioni più lucide sull’argomento l’abbia espressa Papa Francesco, unendo il richiamo al dovere della solidarietà con quello al renderla possibile in concreto senza ridurla ad una sceneggiata in fondo ipocrita: cosa che si realizza non lasciando soli i Paesi di approdo (vale per l’Italia, ma anche per altri, come Cipro, Grecia e Malta) e l’Unione Europea può mostrare anche in questo campo il valore dell’essere almeno in qualche misura “comunità” e non semplice condominio di stati nazionali.

Come pure è doveroso richiamare quanto affermato dal presidente del PPE, il tedesco Manfred Weber, a partire dalla querelle franco – italiana: «…questa crisi deve essere un campanello d’allarme per finalizzare l’accordo sul patto per la migrazione e l’asilo: bisogna trovare una soluzione comune…». Com’è noto, il Trattato di Dublino del 1990 è da tempo ritenuto inefficace ed ingiusto, delegando ogni onere ai Paesi di prima accoglienza. Si è cercato di superarlo con il richiamato accordo sulla “redistribuzione volontaria”: anche tale intesa, però, ha mostrato tutta la sua fragilità! Purtroppo, solo unendo le forze, ridefinendo le politiche di accoglienza, ridisegnando il quadro normativo l’Unione Europea può trarre nuovo slancio per la propria affermazione come comunità di stati realmente democratici attenta ai bisogni ed alla tutela di chi le chiede aiuto.

di Giancamillo Trani

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