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Seconda Predica di Avvento 2022 di Mons. Raniero Cantalamessa

Il tempio di Gerusalemme aveva una porta chiamata “la Porta Bella” (At 3, 2). Il tempio di Dio che è il nostro cuore ha anch’esso una porta “bella”, ed è la porta della speranza.

La credenza d’Israele non differiva da quella dei popoli vicini, specialmente di quelli della Mesopotamia: la morte pone fine per sempre alla vita; si finisce tutti, buoni e cattivi, in una specie di lugubre “fossa comune” che altrove si chiama Arallu e nella Bibbia lo Sheol. La credenza dominante nel mondo greco-romano chiamava, quel triste luogo di ombre, Inferi o Ade. In alcuni oranti biblici, Israele sembra però essersi spinto fino a desiderare e intravvedere la possibilità di un rapporto con Dio oltre la morte: un essere “strappato dagli inferi” (Sal 49,16), “stare con Dio sempre” (Sal 73, 23) e “saziarsi di gioia alla sua presenza” (Sal 16, 11). Quando, verso la fine dell’Antico Testamento, questa attesa, maturata nel sottosuolo dell’anima biblica, verrà finalmente alla luce, non si esprime, alla maniera dei filosofi greci, come sopravvivenza dell’anima immortale che, liberata dal corpo, torna al mondo celeste da cui proviene. In armonia con la concezione biblica dell’uomo, come unità inseparabile di anima e corpo, la sopravvivenza consiste nella risurrezione – corpo e anima – dalla morte (Dan 12, 2-3; 2 Macc 7, 9). Gesù ha portato, di colpo, al suo meriggio questa certezza e – quello che più conta – dopo averla annunciata in parabole e detti (come quello in risposta ai Sadducei sulla donna moglie di sette mariti: Mt 22,30) – ne ha dato la prova irrefutabile risorgendo lui stesso da morte. Dopo di lui, per il credente, la morte non è più un atterraggio, ma un decollo! “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore… Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi.” (Gv 14, 2-3)

La speranza, virtù operativa.

Proprio perché siamo ancora immersi nel tempo e nello spazio, ci mancano le categorie necessarie per rappresentarci in che cosa consista questa “vita eterna” con Dio. È come tentare di spiegare cos’è la luce a uno che è nato cieco. San Paolo si limita a dire: “Si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge corpo spirituale” (1 Cor 15, 43-44). Ad alcuni mistici è stato dato di sperimentare, fin da questa vita, qualche goccia dell’oceano infinito di gioia che Dio tiene preparato per i suoi; ma tutti unanimemente affermano che non se ne può dire nulla con parole umane. Il primo di essi è lui stesso, l’apostolo Paolo. Egli confida ai Corinzi, di essere stato rapito, quattordici anni prima, al “terzo cielo”, in paradiso, e di aver udito “parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare”. (2 Cor 12, 2-4). Il ricordo che quella esperienza ha lasciato in lui è percepibile in ciò che scrive in altra occasione: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano” (1 Cor 2,9).

Riflettere sulla speranza cristiana significa riflettere sul senso ultimo della nostra esistenza. Una cosa è comune a tutti, a questo proposito: l’anelito e vivere “bene”. Vivere bene vuol dire pensare al bene materiale e personale e anche al bene morale e di tutti, il cosiddetto “bene comune”. La speranza teologale ci assicura che Dio ci ha creati per la vita, non per la morte; che Gesù è venuto a rivelarci la vita eterna e darcene la garanzia con la sua risurrezione. Vivere “sempre” non si oppone al vivere “bene”. La speranza della vita eterna è ciò che rende bella, o almeno accettabile, anche la vita presente. Tutti, in questa vita, abbiamo la nostra parte di croce, credenti e non credenti. Ma una cosa è soffrire senza sapere a che scopo, e un’altra soffrire sapendo che “le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi” (Rom 8, 18).

Rendere ragione della speranza.

Uno dei fattori determinanti del rapido diffondersi della fede, nei primordi del cristianesimo, fu l’annuncio cristiano di una vita dopo la morte infinitamente più piena e più gioiosa di quella terrena. L’imperatore Adriano si era costruito in varie parti del mondo ville spettacolari e si era preparato come mausoleo quello che è ora Castel Sant’Angelo. Vicino alla morte scrisse una specie di epitaffio per la sua tomba. Parlando alla sua anima, la esortava, in esso, a dare un ultimo sguardo alle bellezze e agli svaghi di questo mondo, perché – diceva – stai per scendere “in luoghi incolori, ardui e spogli”. L’Ade! Si può immaginare la liberazione spirituale che doveva provocare, in un’atmosfera come questa, l’annuncio di una vita infinitamente più piena e più luminosa di quella che si lasciava con la morte. Si spiega così perché l’idea e i simboli della vita eterna sono tanto frequenti nelle sepolture cristiane delle catacombe.

Leggendo i racconti successivi alla Pasqua, si ha la sensazione che la Chiesa nasca da un moto di “speranza viva” (1Pt 1,3) e con questa speranza mosse alla conquista del mondo. Anche oggi abbiamo bisogno di una rigenerazione della speranza se vogliamo intraprendere una nuova evangelizzazione. Non si fa nulla senza speranza. Gli uomini vanno là dove si respira aria di speranza e fuggono dove non avvertono la presenza di essa. La speranza è quella che dà il coraggio ai giovani di formarsi una famiglia o di seguire una vocazione religiosa o sacerdotale, che li tiene lontani dalla droga e da altri simili cedimenti alla disperazione. La speranza è paragonata a un’àncora sicura e salda (Eb 6, 18-19), perché gettata nell’eternità. Ed è paragonata a una vela. Se l’àncora è ciò che dà alla barca la sicurezza e la tiene ferma tra l’ondeggiare del mare, la vela è invece ciò che la fa camminare, e avanzare nel mare. Entrambe queste cose fa la speranza con la barca della Chiesa. Oggi, il compito che abbiamo davanti, nei confronti della speranza, non è più quello di difenderla e di giustificarla filosoficamente e teologicamente, ma di annunciarla, di mostrarla e di donarla a un mondo che ha perso il senso della speranza e sprofonda sempre più in un pessimismo e nichilismo che è il vero “buco nero” dell’universo.

Gaudium et spes.

Un modo di rendere attiva e contagiosa la speranza è quello formulato da san Paolo quando dice che “la carità tutto spera” (1 Cor 13,7). Questo vale non solo per la singola persona, ma anche per l’insieme della Chiesa. La Chiesa tutto spera, tutto crede, tutto sopporta. Essa non può limitarsi a denunciare le possibilità di male che ci sono nel mondo e nella società. Non si deve certamente trascurare il timore del castigo e dell’inferno e cessare dal mettere in guardia le persone dalle possibilità di male che un’azione o una situazione comportano, come le ferite arrecate all’ambiente. L’esperienza però dimostra che si ottiene di più per via positiva, insistendo sulle possibilità di bene; in termini evangelici, predicando la misericordia. Mai forse il mondo moderno si è mostrato così ben disposto verso la Chiesa e così interessato al suo messaggio, come negli anni del Concilio. E il motivo principale è che il Concilio Vaticano II dava speranza. Per questo va ripreso. L’eternità è una misura molto larga; ci permette di sperare di tutti, di non abbandonare nessuno senza speranza. L’Apostolo Paolo dava ai cristiani di Roma la consegna di abbondare nella speranza. “Il Dio della speranza – scriveva – vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo (Rom 15, 13)”.

La Chiesa non può fare al mondo dono migliore che dargli speranza, non speranze umane, effimere, economiche o politiche, sulle quali essa non ha competenza specifica, ma speranza pura e semplice, quella che, anche senza saperlo, ha per orizzonte l’eternità e per garante Gesù Cristo e la sua resurrezione. Sarà poi questa speranza teologale a fare da molla a tutte le altre legittime speranze umane. Chi ha visto un medico visitare un ammalato grave, sa che il sollievo più grande che gli può procurare, migliore di tutte le medicine, è dirgli: “Il medico spera; ha buone speranze per te!”.

La speranza, così intesa, trasforma tutto ciò che tocca. Il suo effetto è descritto meravigliosamente in questo brano di Isaia: “Anche i giovani faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi” (Is 40, 30-31). Dio dona speranza e la speranza dà la forza di elevarsi al di sopra della stanchezza o dei problemi. Nell’Apocalisse si legge che “quando il drago si vide precipitato sulla terra, si avventò contro la donna che aveva partorito il figlio maschio. Ma furono date alla donna le due ali della grande aquila, per volare nel deserto verso il rifugio preparato per lei” (Ap 12, 13-14). L’immagine delle ali dell’aquila si ispira chiaramente al testo di Isaia. Si viene perciò a dire che alla Chiesa intera sono state date le grandi ali della speranza, perché con esse possa, ogni volta, sfuggire agli attacchi del male, superare di slancio le difficoltà.

“Alzati e cammina!”

La porta del tempio detta “la Bella” è nota per il miracolo che avvenne presso di essa. Uno storpio giaceva davanti ad essa per chiedere l’elemosina. Un giorno passarono di lì Pietro e Giovanni e sappiamo cosa accadde. Lo storpio, guarito, balzò in piedi e finalmente dopo chissà quanti anni che giaceva lì abbandonato, varcò anche lui quella porta ed entrò nel tempio, si legge, “saltando e lodando Dio” (At 3, 1-9). Anche noi ci troviamo spesso, spiritualmente, nella posizione dello storpio sulla soglia del tempio: inerti, tiepidi, come paralizzati davanti alle difficoltà. Ma ecco che la divina speranza ci passa accanto, portata dalla parola di Dio, e dice anche a noi, come Pietro allo storpio: “Alzati e cammina!” E noi balziamo in piedi e entriamo finalmente dentro, nel vivo della Chiesa, pronti ad assumerci, di nuovo e gioiosamente, compiti e responsabilità. Sono i miracoli quotidiani della speranza. Essa è davvero una grande taumaturga, una grande operatrice di miracoli; rimette in piedi migliaia di storpi, migliaia di volte. Oltre che per l’evangelizzazione, la speranza ci è di aiuto nel nostro cammino personale di santificazione. Essa diviene, in chi la esercita, il principio del progresso spirituale. Permette di scoprire sempre nuove “possibilità di bene”, sempre qualcosa che si può fare. Non lascia che ci si adagi nella tiepidezza e nell’accidia. Quando sei tentato di dire a te stesso: “Non c’è più nulla da fare”, ecco che la speranza si fa avanti e ti dice: “Prega!”. Tu rispondi: “Ma ho pregato!” ed essa: “Prega ancora!”. E anche quando la situazione dovesse diventare dura all’estremo e tale da sembrare che non c’è proprio più nulla da fare, ecco che la speranza ti addita ancora un compito: sopportare fino alla fine e non perdere la pazienza, unendoti a Cristo sulla croce. L’Apostolo, abbiamo sentito, raccomanda di “abbondare nella speranza”, ma aggiunge subito come questo diventa possibile: “per virtù dello Spirito Santo”. Non per i nostri sforzi. Il Natale può essere l’occasione per un sussulto di speranza. Il grande poeta moderno delle virtù teologali, Charles Péguy, ha scritto che Fede, Speranza e Carità sono tre sorelle, due grandi e una piccina. Vanno per la strada tenendosi per mano: le due grandi, Fede e Carità, ai lati e la bambina Speranza al centro. Tutti, vedendole, pensano che sono le due grandi che trascinano la piccina al centro. Si sbagliano! È lei che trascina tutto. Perché se viene a mancare la speranza, tutto si ferma.

Se vogliamo dare un nome proprio a questa bambina, non possiamo che chiamarla Maria, colei che quaggiù – dice l’altro grande poeta delle virtù teologali, Dante Alighieri – “intra i mortali”, è “di speranza fontana vivace”.

di Angela Di Scala

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