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Il muralista napoletano si racconta: “Non avevo niente prima della street art, molti miei amici si sono distrutti la vita con la droga”

Per Jorit Agoch “non deve essere pubblicità … Io non credo che la street art possa cambiare il mondo, ma almeno può accendere un faro”. “Per me la street art è la rabbia che avevo da ragazzino e che volevo incanalare nelle cose giuste. Quando Blu a Bologna cancella le sue opere, quando Banksy fa riflettere: è quella cosa là”.

Il nome d’arteJorit Agoch è composto dall’unione del suo vero nome di battesimo e la sua tag. All’anagrafe Jorit Ciro Cerullo, classe ’90, con padre partenopeo e madre olandese, nato e cresciuto nella periferia Nord di Napoli, a Quarto. È diventato famoso in tutta Italia e in tutto il mondo per i suoi murales. Ha dipinto negli Stati Uniti, in Sudamerica, in Cisgiordania, a Mosca. Figlio di padre napoletano e madre olandese, ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Napoli e per anni si è celato dietro un’identità anonima. “Si parla di chi spaccia, di chi si distrugge con la droga. Se lo fanno è perché non hanno nient’altro. Pure io non avevo altro. Poi ho dipinto. Molti miei amici invece hanno fatto quell’altro percorso e si sono distrutti la vita. Ma se dai un’alternativa ai ragazzi mica fanno questo, che è una palla, distruggersi la vita. Fanno altro”.

I ritratti monumentali di Jorit Agoch sono tutti marchiati da due righe rosse sul volto: i tratti di una “Human Tribe”, come la definisce lui, che ha appreso in Africa, dalla tribù Tingatinga. Un segno di uguaglianza e di riscatto che lui stesso si è fatto tracciare in viso da un professionista. Alcune sue opere sono diventati delle attrazioni vere e proprie: come il San Gennaro dipinto alle porte di Forcella, nel cuore di Napoli; o i ritratti di Diego Armando Maradona a San Giovanni a Teduccio e a Quarto.

 “Ho iniziato nell’estrema periferia di Napoli, dove non c’era niente – ha raccontato – Io vedevo questi treni colorati che passavano. E capivo che c’era qualcosa di bello anche a Quarto Officina, al deposito dei treni. Ho scoperto che si poteva disegnare sui muri e mi sono detto, lo voglio proprio fare. Non si poneva il problema dell’illegalità. Tutti ci ignoravano. Ogni tanto veniva il poliziotto, però alla fine ci parlavamo. C’erano altri problemi”. Cerullo ha cominciato con le scale, quindi con i ponti, e allora il passaggio dai graffiti ai ritratti monumentali.

“Come in molti Paesi del Sudamerica – ha spiegato – a Napoli non c’è la percezione dell’illegalità di certe cose. A Milano non succede. A Londra tendono a reprimere. Perciò solo qui potevo agire nella semi illegalità; potevo fare opere più elaborate rispetto agli stencil di Banksy, che deve sempre scappare. E così mi sono potuto dedicare ai ritratti. Il volto non lo puoi ignorare. Le persone subito venivano attratte“. “C’è qualcosa di profondo nel nostro essere umani. Rappresentare un volto non è semplicemente dipingere una persona, ma mettere l’osservatore a tu per tu con se stesso” I primi ritratti erano amici: volti dipinti tra il Rione Traiano e Soccavo. Lo step del 2015: “Mi proposero allora di fare San Gennaro. Io non sono credente. Dissi di sì, ‘se riusciamo a comunicare qualcosa di più importante. E quindi santifichiamo il mio amico, sempre chiuso in carrozzeria e facciamolo diventare santo’. Pure lui si chiama Gennaro, però è un carrozziere. Ora è all’ingresso di Forcella”.

Fonte: Antonio Lamorte – Il Riformista
Immagine tratta da Instagram

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