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Kharkiv: la città bombardata che vive sotto terra, nelle stazioni della metropolitana

Fuori, in superficie, Kharkiv è una città fantasma. Solo pochissimi negozi sono aperti. La gente è andata via. Gli uffici sono chiusi. Per strada, i bambini non giocano più nei parchi. Ma la città è ancora attiva. Vive sotto terra, nelle stazioni della metropolitana, una rete sotterranea di vagoni e tunnel dove si dorme, si cucina, si studia, e dove i bimbi – nonostante le bombe – continuano a nascere.

È don Vyacheslav Grynevych, direttore della Caritas-Spes Ucraina a raccontare cosa succede sotto la metropolitana di Kharkiv, dove è stato nell’ultima missione per portare aiuti umanitari e condividere il lavoro che sta facendo sul posto la Caritas locale. “Sono rimasto sorpreso nel vedere come le persone si sono organizzate”, racconta.

Appena si entra nella metropolitana, nel gabbiotto dove prima si compravano i biglietti, ora ci sono persone che controllano l’ingresso. Un poliziotto ferma i “visitatori”, chiede i documenti e il motivo per cui chiedono di entrare. “Hanno quindi chiamato una donna che poi abbiamo capito essere la responsabile della comunità che vive in quella stazione metro”. Una sorta di “mini-sindaco” scelto tra le persone più attive, capaci di relazioni e contatti con le autorità e le associazioni caritative locali. Quando i russi hanno iniziato a bombardare la città, tutte le persone si sono riversate sotto la metro alla ricerca di un posto sicuro. C’era il caos più totale.

Con i giorni che passavano, tutti hanno capito che non sarebbe stata una situazione provvisoria e che dovevano organizzarsi. Oggi, la metropolitana è diventata per molti una città dentro la città. Tutta la rete è stata adibita a centro di accoglienza dove possono vivere tra le 60 e le 70 persone a stazione. Il responsabile ha tra i vari compiti anche quello di gestire un registro delle presenze, con le uscite e le nuove entrate, in modo da evitare sovrappopolamento o posti liberi.

Una volta entrati, a destra si trova adibita una cucina. C’è una scheda che stabilisce i turni e quante persone possono mangiare per la colazione, il pranzo e la cena. A sinistra c’è un punto medico dove è possibile avere una consulenza o anche le medicine. I treni – che un tempo trasportavano gli abitanti da un punto all’altro della città – ora sono fermi. Ogni vagone ha tre entrate e in ciascuno spazio è stato adibito una stanza per nucleo familiare o gruppo. Dentro le persone hanno portato tutto il necessario per vivere. E’ la loro casa, tanto che qui, ogni famiglia e ogni nucleo si definisce in base al vagone in cui è sistemato. “C’è stata in questi giorni una donna giovanissima di 22 anni che ha partorito la sua bimba Victoria”, racconta il sacerdote. “E quando è ritornata nella stazione metro con la piccolina, era come se tornasse a casa e quella bimba fosse l’ultima figlia nata in una famiglia più allargata”.

I bambini comunque sono pochi. Le famiglie giovani per lo più sono andate via. Chi è rimasto generalmente sono gli anziani che non vogliono e non possono lasciare la città. Nello spazio comune della stazione metro c’è un tavolo con un computer dove i bambini fanno a turno per giocare ai video games. C’è anche un ragazzo che fa lezioni online. Hanno organizzato per lui una postazione e quando ha lezione, in tutta la stazione scende il silenzio per non disturbare. “L’esperienza della guerra è comunque entrata nella loro vita e rimarrà per sempre”, osserva don Vyacheslav. “I nostri operatori ci raccontano che quando i bambini descrivono la guerra, ripetono ‘bang bang’ e poi per descrivere il rumore delle armi che sentono, lo paragonano al suono della pioggia che cade violenta a terra durante un temporale. Non è normale che un bambino parli così”.

Le diverse stazioni metro sono collegate tra loro attraverso una viber chat onlinecon cui comunicano le necessità e le risorse che hanno, dallo zucchero alla farina ai medicinali e lo scambio dei beni avviene sotto i tunnel. E’ una organizzazione logistica sotto terra. Ogni giorno, alle 20, hanno addirittura la serata cinema: hanno allestito un proiettore e tutti gli “abitanti” della stazione votano il film che ogni sera vogliono vedere. Fuori in superficie gli uffici sono chiusi. Le persone non lavorano ma hanno dato tutti la disponibilità a pulire la città o lavorare come volontari nei diversi servizi. Alcuni sono lì perché hanno le case bombardate, altri perché hanno paura delle bombe e hanno trovato nella stazione un posto più sicuro.

Molti sono arrivati anche dalle periferie più colpite dagli attacchi. “Quello che si avverte è un grande sentimento di incertezza sul futuro. Allo stesso tempo il fatto di prendersi la responsabilità l’uno dell’altro all’interno di queste piccole comunità, dà un senso per andare avanti”, racconta il direttore Caritas Spes. Che aggiunge: “La guerra non finirà presto con un accordo di pace. Rimarrà tra di noi ancora per lungo tempo. Rimarrà nella storia presente del nostro Paese e in Europa. C’è sempre il timore di essere dimenticati dall’Europa, perché dopo il primo choc, è facile abituarsi alla guerra. Il nostro compito quindi come chiesa ucraina e come Caritas è quello di esserci per tutto il tempo che questo conflitto richiederà. È facile cominciare la guerra, è molto difficile fermarla. La domanda che ci poniamo è come lavorare non solo per ricostruire il paese dalle macerie ma anche per sanare i cuori feriti. Il perdono sarà la grande sfida. Lo sguardo è sempre rivolto al giorno in cui la guerra finirà e le persone potranno tornare a casa”.

Fonte: M. Chiara Biagioni – Sir
Immagine: Sir

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