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Il clima e l’Orologio dell’Apocalisse

Per evitare la fine del mondo occorre ascoltare il grido della Terra e il grido dei poveri

La Conferenza sul clima e il rischio del “bla bla bla”. Anche i cittadini devono cominciare a costruire la speranza: ridurre l’inquinamento, causa prima dei cambiamenti del clima, comporta stili di vita più sobri

Qualcuno forse non sa che esiste un orologio che misura quanto lontani siamo dalla fine del mondo. Pensavo fosse un’invenzione dello scrittore inglese Alan Moore nella sua opera a fumetti Watchmen, che poi è diventato anche un discreto film. E invece no, l’Orologio dell’Apocalisse, così si chiama ufficialmente, esiste per davvero, e viene aggiornato ogni anno dagli esperti scienziati del Bulletin of the Atomic Scientists, fondato a Chicago nel 1945 da coloro che avevano costruito la bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki.

L’Orologio è una metafora, a dire il vero poco metaforica: se la fine del mondo è la mezzanotte, in queste ultime settimane del 2021, ad esempio, quanto tempo manca alla mezzanotte? Noi napoletani, in fondo, già sappiamo che «cchiù nera d’a mezzanotte nun po’ venì», e allora la domanda è: quanto manca, e cosa fare perché non arrivi la mezzanotte più nera? La risposta, seria purtroppo, molto seria, tiene conto non solo del rischio di un’ipotetica guerra nucleare, ma anche di tutte quelle situazioni che possono portare danni irrevocabili all’umanità. Compresi i cambiamenti climatici. Ebbene, in questo 2021 abbiamo raggiunto la distanza minima dalla mezzanotte mai registrata dal 1945: mancano solo un minuto e quaranta secondi. Cento secondi, per evitare la fine del mondo: questo è il tempo che ci rimane, sperando che a questo punto non sia troppo tardi. Come quando uno è indeciso, poi capisce che non può aspettare di più, si precipita a fare quello che doveva fare, ma… ma il Big Ben ha detto stop, come diceva Enzo Tortora. Il tempo è finito, hai aspettato troppo tempo inutilmente.

Per essere più chiari: nel 2018, in quest’Orologio dell’Apocalisse mancavano due minuti netti alla mezzanotte. Insomma, in questi ultimi anni ci siamo avvicinati, e non di poco, alla fine. Piuttosto tetro, verrebbe da dire, e spaventoso. Ma dovrebbero spaventare di più le parole dei leader mondiali, riuniti prima a Roma nel G20 e poi a Glasgow nel COP26, la Conferenza sul clima organizzata dall’ONU, alla fine di ottobre-inizio novembre. «Se non prendiamo seriamente il cambiamento climatico oggi, sarà troppo tardi perché lo facciano i nostri figli domani», ha avvertito ad esempio Boris Johnson. E giorni prima Draghi aveva detto che «in questo vertice abbiamo fatto sì che i nostri sogni siano ancora vivi, ma adesso dobbiamo accertarci di trasformarli in fatti», perché «ci troviamo di fronte a una scelta semplice: possiamo agire ora o pentircene in seguito».

Persino l’anziana regina Elisabetta, nel suo discorso in video, ha affermato con decisione che non è più «il tempo delle parole, ma il tempo dell’azione» per affrontare la minaccia dei cambiamenti climatici, invitando i leader mondiali a «elevarsi oltre la politica spicciola»: infatti, «nessuno vive per sempre», ma occorre pensare «ai figli, ai nipoti», alle generazioni che verranno. Sembra di sentire Greta Thunberg e la sua affermazione che i leader fanno solo bla bla bla, parlando tanto, ma alla fine non facendo nulla di concreto.

E così sembra andata anche stavolta, con Cina e India che ricordano all’Occidente industrializzato (Europa e USA) che storicamente il loro inquinamento è 8 volte quello dei Paesi asiatici. Come dire: finora ve la siete spassata voi, ora vogliamo farlo noi. Ridurre infatti l’inquinamento, causa prima dei cambiamenti del clima, vuol dire mettere mano a tutta una serie di processi di riconversione dell’apparato industriale di ogni singolo Paese, il che vuol dire grandi spese (cambiare, costa…), ma anche minori guadagni (e ne soffre l’economia). E allora, a parole tutti sono consapevoli dell’urgenza (solo cento secondi alla fine…), ma poi si va avanti con impegni generici, e si rimanda tutto tra cinquanta anni.

Come cristiani, e come semplici uomini e donne che hanno a cura il bene della “casa comune” che è questo nostro pianeta, abbiamo molto da fare. In primo luogo, dobbiamo aiutare a far crescere la consapevolezza che non si tratta di questioni marginali, ma del nostro stesso futuro. Inoltre, dobbiamo iniziare a costruire la speranza, proponendo a tutti i livelli stili di vita più sobri, alternativi al consumismo imperante (si pensi che per produrre un solo paio di jeans occorre l’uso di quasi 10.000 litri di acqua, quanto il fabbisogno di acqua di un uomo per dieci anni, e si emettono 34 kg di gas serra…).

Infine, siamo chiamati a saldare quest’attenzione al clima a quella verso gli scarti della terra, come ha ben ricordato Papa Francesco, chiedendo che vengano ascoltati insieme «il grido della Terra e il grido dei poveri».

Siamo insomma coloro che dovrebbero ricordare a tutti che gli orologi possono anche tornare indietro.

Fonte: Pino Natale – in collaborazione con Segni dei Tempi

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