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Cosa augurare a Benedetto XVI per i suoi 94 anni?

Tra le innumerevoli carte di Joseph Ratzinger, si trovano alcune “omelie giubilari”, scritte e pronunciate cioè in occasione di particolari occorrenze anniversarie: nel 1990 il giovane cardinale ne lesse una per il confratello Franz Hengsbach. Rileggerla quasi 34 anni dopo dice molto del Papa Emerito… e lascia qualcosa anche per noi.

“Vorrei racchiudere i miei, i nostri auguri in questa semplice preghiera d’Israele. Possa il Signore, caro Cardinale Hengsbach, farti sentire ogni giorno la sua bontà. Possa continuare ad accompagnare ogni giorno la tua opera di vescovo e di sacerdote con la pienezza della sua benedizione”.
(Joseph Ratzinger, Un portavoce della riconciliazione. Per l’ottantesimo compleanno del Cardinale Franz Hengsbach, in Id./Benedetto XVI, Opera omnia XII, 823-830, 830).

Queste sono parole che l’ancora cardinal Ratzinger – all’epoca relativamente giovane: aveva 64 anni – pronunciava il 9 settembre del 1990 alla vigilia dell’ottantesimo compleanno del cardinale Franz Hengsbach. Quello sarebbe stato l’ultimo anniversario del grande porporato tedesco, che avrebbe salutato la scena del Secolo Breve (in tutti i sensi) tra i fuochi del San Giovanni del 1991 (il 24 giugno).

Oggi saranno in pochi a ricordarsi del cardinal Franz Hengsbach, ma prima che sorgesse l’astro di Ratzinger era stato lui il maggiore e il più in vista tra i Vescovi cattolici tedeschi: dopo aver attraversato entrambi i conflitti mondiali, che di tante macerie avrebbero ricoperto la Germania, e dopo aver giganteggiato nell’apostolato mentre il Paese era squarciato in due dal Muro e dalla Guerra Fredda (anni in cui fu insignito di due alte onorificenze statali dalla Bundesrepublik) egli sarebbe stato il primo presidente della Commissione delle Conferenze Episcopali della Comunità Europea (COMECE). Insomma, ce lo saremo anche dimenticato ma l’uomo che nel suo ultimo compleanno Joseph Ratzinger definì “portavoce della riconciliazione” era stato un personaggio monumentale. Vale la pena riportare anzitutto un tratto della sua personalità ecclesiastica, che è pure un aneddoto:
“Nell’azione a raggio mondiale che egli ha svolto è sempre rimasto in modo del tutto consapevole pastore di questa terra e dei suoi abitanti, e come segno di questo fece incastonare nel suo anello episcopale un pezzo di carbone: il simbolo di questa terra, della sua forza e anche delle sue sofferenze e dei suoi problemi” (Ivi, 826).

Del carbonfossile incastonato nell’episcopale! Il minerale chimicamente più simile al diamante, eppure apparentemente il più dissimile: quale grande e nondimeno agile allegoria dell’Evangelo del Crocifisso-Risorto! Era il 1990, allora, e con la Germania tutta l’Europa e l’intero “mondo” (atlantico) si rasserenavano al fragore della Cortina di Ferro che cadeva. I timonieri della Chiesa in quella tempestosa stagione avevano tutte le ragioni di guardarsi come dei sopravvissuti, o meglio come dei veterani, ma le considerazioni di Ratzinger sembrano essere sbalzate non a partire dalla morte e dalla guerra, bensì da una «pace che il mondo irride, / ma che rapir non può» (Manzoni):
«Questa sollecitudine per gli uomini lo ha mantenuto giovane, mi sembra. Non si è mai trattato di un puro e semplice “fare”, che a un certo punto inevitabilmente si esaurisce e decade in rassegnazione e delusione. Essa ha continuato a nutrirsi di un ottimismo sempre nuovo perché era un condividere la sollecitudine di Gesù Cristo e pertanto aveva in Lui la certezza che nulla di quello che facciamo è perduto, che a partire da lui ci è consentito e possiamo sempre ricominciare».

Oggi che Benedetto XVI compie 94 anni ci sembra di poter “rispedire al mittente” – ovvero rifletterle sulla sua vita – queste considerazioni: Ratzinger non è mai stato quel che si dice un “uomo di azione”, eppure nient’altro che la sollecitudine di Gesù Cristo per gli uomini anima ancora la sua vitalità in quest’ultimo tratto del suo pellegrinaggio terreno, mentre – parole sue – resta «nel recinto di Pietro» «orando et patiendo» (“pregando e soffrendo”: parole profetiche di quel febbraio 2013).

Sono (almeno apparentemente) remoti i tempi dei dopoguerra, e purtroppo anche della Caduta del Muro conserviamo una memoria meno fresca e grata: di tutto questo, però, e di molto altro ancora, vediamo l’ardente e orante ricordo nel lumicino del Papa Emerito, che quanto più si attenua tanto meno sembra sul punto di spegnersi.
Il futuro Benedetto XVI ragionava proprio, in quell’omelia giubilare, dell’attenzione e dell’intenzione che fanno di un uomo un pescatore di uomini, e di un cristiano un vescovo:
«“Skopòs” è uno che guarda, uno che osserva anche per gli altri. Il più esteso termine neotestamentario epìskopos intende designare qualcuno che ha una visione generale, che non si perde nei dettagli ma ha di mira l’insieme, il “da dove” e il “verso dove”, e così riconosce i pericoli come anche le strade che portano avanti e promettono vita. Con questo naturalmente non si intende uno sguardo distaccato fatto di pura curiosità intellettuale, ma uno sguardo che è insieme sollecito e responsabile; uno sguardo che diventa azione, aiuto, accompagnamento e guida. I Padri della Chiesa si chiedono: come si acquisisce questo sguardo, questo guardare all’insieme che può diventare dunque anche un guidare? Per avere una visione generale – essi dicono –, per vedere l’insieme, bisogna stare in alto. Solo così si vede di più. E sorge allora la domanda successiva: qual è l’altezza che ci permette davvero di vedere bene, che ci con|sente una reale visione d’insieme? E la risposta è questa: la vera altezza dell’uomo, in cui egli riconosce se stesso e imparar a vedere per gli altri, è la comunione con Gesù Cristo. Egli è salito sulla croce e da lì ci mostra chi siamo e dove dobbiamo andare. E solo nella compagnia con lui noi acquisiamo lo sguardo giusto, lo sguardo dell’amore che proviene da Dio e che solo ci permette di vedere bene. E così diventa anche chiaro che l’altezza che è richiesta al ministero di colui che guarda, del vescovo, non è l’altezza del distacco, della saccenteria, del credersi superiore o addirittura della superbia e del prendere le distanze, ma che questa altezza è quella dell’amore; per questo i Padri della Chiesa ci dicono: Cristo ci ha insegnato che la vera ascesa dell’uomo si compie se egli osa la discesa nell’amore. Solo così egli giunge a quell’altezza e diventa grande. Noi non conseguiamo l’altezza nell’andarcene via, ma nello stare insieme a partire da Gesù Cristo» (Ivi, 824-825).

Il pontificale si celebrava ad Essen, quel 9 settembre 1990, ossia nel secondo centro della “provincia” del Ruhr dopo Dortmund (il quarto del Land renano-westfalico): territorio al “confine tra Francia e Germania, in passato luogo di contrasti [e] […] ora divenuto una via di fraternità, nella quale ci scambiamo reciprocamente il dono della fede, nella quale possiamo essere insieme Chiesa” (Ivi, 827).

Una vita spesa “sul fronte occidentale”, dunque, ma non solo: quando Hengsbach fu fatto vescovo – anzi “Erster Ruhrbischof” (primo “Vescovo della Ruhr”) (da Pio XII) “si vide che si era trattato di una preparazione provvidenziale alla sua missione: cercare la riconciliazione non solo verso ovest ma anche verso est, in riferimento alla dolorosa storia fra tedeschi e polacchi (Ibid).

Anche la vita di Benedetto XVI ci appare spesa su più fronti, verso i quali da decenni Ratzinger si è sforzato di essere egli stesso “portavoce della riconciliazione”: sul “fronte orientale” egli si è sforzato di canalizzare le energie riformiste della grande stagione conciliare scongiurando che tracimassero in pigli rivoluzionari; sul “fronte occidentale”, viceversa, ha cercato di rendere giustizia alle ragioni dei “tradizionalisti”, per quanto spesso viziate da orizzonti reazionari. Non solo: nella stessa polarizzazione ecclesiale che ha accompagnato il suo pontificato fino alle dimissioni (e oltre) Benedetto XVI ha speso ogni energia, perfino con interventi pubblici, per comporre i movimenti eversivi (non lesinando amorevoli ma fermi richiami anche ad amici di vecchia data).

Ratzinger riconobbe in Hengsbach l’amore per l’Europa e per la sua identità, ma al contempo il rifiuto – genuinamente cattolico – di richiudersi «in un augusto eurocentrismo» (ivi, 828): tale sfida «richiede che impariamo a guardare con gli occhi di Gesù Cristo e che riconosciamo la dignità dei poveri, che impariamo a comprenderli come i fratelli e le sorelle che gli sono più vicini. Essa esige che ci rendiamo conto che ciò che è in nostra proprietà è sempre responsabilità verso il tutto, così come non mi appartiene del tutto neppure il mio io, ma mi è stato donato e può essere vissuto nel modo giusto solo se lo consegno a un “tu”. Così niente di ciò che ho può essere semplicemente mio, ma mi è stato dato perché io ne sia amministratore per il tutto, perché ne renda conto, perché realmente ci sia comunione rispetto ai beni della terra che Dio ci ha donato (Ivi, 829).

Quasi vent’anni prima del Documento di Aparecida, e mentre la Centesimus Annus era ancora nel cassetto di Giovanni Paolo II, Ratzinger distillava il succo della Dottrina Sociale della Chiesa in merito a fondatezza della proprietà privata e a destinazione universale dei beni. Lo stesso si può dire, analogamente, anche per i beni immateriali come il genio spirituale e teologico – per cui da sempre Ratzinger è riconosciuto una punta di diamante della cristianità –: essi sono condivisi a vantaggio di tutta la Chiesa e dello stesso mondo in quella grande “banca mistica” che è la comunione dei santi.

Mentre festeggiamo i 94 anni compiuti di pellegrinaggio terreno di Ratzinger/Benedetto XVI siamo invitati non a intessere panegirici, bensì a “tenere lo sguardo fisso” sul Riconciliatore di cui la Grazia di Dio ha reso portavoce e ministri i due presuli tedeschi e – secondo modalità e gradi distinti – tutti noi.
“Faremmo bene – disse il card. Ratzinger in quel giorno settembrino –, credo, ad imprimere maggiormente nelle nostre orecchie e nei nostri cuori le parole con le quali inizia il Padre Nostro: Adveniat regnum tuum (venga il tuo Regno). Esse ci dicono che non costruiamo noi il Regno di Dio con le nostre capacità e la nostra intelligenza. Dio lo fa. E vuole che glielo chiediamo nella preghiera. Ogni volta che gli uomini affermano di poterlo fare, ingannano se stessi e tutti noi. Tutti i paradisi costruiti dagli uomini sono sempre divenuti inevitabilmente tirannie. Dio solo edifica il suo Regno” (Ivi, 828).

Le opere belle della Chiesa sono riflesso e testimonianza della gloria di Cristo: lo spirito e gli scritti di Ratzinger/Benedetto XVI restano tra le grazie maggiori che la cristianità abbia ricevuto nei secoli XX e XXI, e mentre il Papa Emerito attende al Mater Ecclesiæ – un po’ il suo Monte Nebo – l’incontro definitivo col Signore – noi proseguiamo con l’amicizia dei suoi insegnamenti e del suo esempio il cammino verso la Terra Promessa. Che è il Regno di Dio e che noi attendiamo fiduciosi e operosi.

Fonte: Giovanni Marcotullio – Aleteia

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